PER I NOSTRI CLIENTI E
COLLEZIONISTI ABBIAMO AGGIUNTO UN REPARTO DEDICATO ALLO STUDIO ED ALLA
STORIA DEL MEDIOEVO
UTILISSIMO PER CAPIRE I DATI ED SPECIALMENTE L'ETA' DELLE MONETE DI VOSTRO
INTERESSE.
Fase finale e caduta
dell'impero romano d'Occidente
Il passaggio dall'Antichità al Medioevo non avvenne d'un colpo, ma in un lungo
lasso di tempo. Rappresentò un'ampia serie di lenti e graduali cambiamenti, di
cui la caduta dell'impero romano d'Occidente costituì una cesura solo nel senso
che con essa tramontò in Occidente la cornice politica della società romana
classica.
La ricostruzione degli avvenimenti nei secoli successivi riguardanti la storia
di Urbs Salvia risulta spesso frammentaria, ma le sue vicende si collocano nel
quadro della regione. Il Piceno seguì fatalmente le sorti amministrative del
resto d'Italia, che ricevette l'ordinamento amministrativo stabilito
dall'imperatore Diocleziano (245-313) e attuato dal successore Costantino
(280-337).
Posteriormente, al posto della V regio augustea, fu costituita la provincia
della Flaminia et Picenum, sottoposta ad un corrector, e quindi ad un consularis,
come riferisce Ammiano Marcellino nelle sue Storie di un governatore di nome
Patruino ed anche il cippo miliare della vicina abbazia di santa Maria delle
Macchie. Un ulteriore modificazione amministrativa avvenne verso il V secolo
quando i territori a sud dell'Esino furono riuniti nel Picenum suburbicarium e
sottoposti direttamente all'amministrazione di Roma.
Il carattere mistico religioso della popolazione picena, che risale a origini
antichissime (basti ricordare i fana, i boschi sacri, le stipi votive e la
tradizione sabellica, mai tramontata per tanto volgere dei secoli) aveva trovato
subito un nuovo indirizzo nella religione cristiana. La diffusione dalle nostre
parti viene riferita a san Marone, antico cooprotettore di Urbisaglia a cui è
legata la leggenda riportata dagli statuti cinquecenteschi di Civitanova. Narra
Giovanni Marangoni nel suo libro Memorie Sagre e Civili di Civitanova del 1714:
che essendo solito ogni anno di uscire una volta dal Mare nella spiaggia verso
il Fiume Chienti un grandissimo Dragone, che col fiato uccideva i fanciulli di
3. Anni, in quell'anno era stata destinata per cibo del Dragone la Figlia del
Re, ed il Santo avvisato dall'Angelo, portossi incontro al Dragone, e col nome
di Cristo lo confinò nel Mare, e liberò la fanciulla Reale. Indi portatosi in
Urbisaglia, il Re di quella, nominato Traiano si battezzò, credendo nel Dio di
Marone. La vetustà della leggenda, oltre a confondere i due santi, san Giorgio
- il principale protettore di Urbisaglia - e san Marone cooprotettore,
testimonia la rapida diffusione del cristianesimo in questa terra sin dai tempi
più antichi e la sconfitta del paganesimo, sottinteso dalla presenza
leggendaria del drago.
La diffusione del cristianesimo avvenne maggiormente all'interno delle città,
tanto che l'abitante del pagus (pagano) divenne sinonimo di non cristiano e
seguace dell'antica religione romana. Già prima dell'editto di Milano, emanato
da Costantino nel 313, le comunità cristiane si erano normalmente formate nei
centri urbani delle città, sotto il governo di un vescovo. Si era così presa
l'abitudine di considerare la civitas come quadro normale di una circoscrizione
ecclesiastica - più tardi sarà chiamata diocesi - di cui il vescovo ne era il
capo indiscusso. Nel IV secolo questa situazione, delle città divenute
cristiane e delle campagne rimaste pagane, si evolve, in particolare perché l'élite
urbana guadagna le campagne e fonda chiese rurali nei grandi possedimenti
agricoli.
Soprattutto fu il concetto stesso di città ad essere minacciato nella sua
esistenza e coesione dallo sviluppo della grande proprietà terriera. La città
sarebbe senza dubbio scomparsa senza che la struttura che essa costituiva si
fosse perpetuata in alcunché, se non si fosse protratta nella diocesi
ecclesiastica. E questa circostanza fu di ancora più grande rilievo se si pensa
che ciò, che si può chiamare la lotta tra la città e la grande proprietà nel
basso impero, si trasferì in qualche modo sul piano delle cose ecclesiastiche.
Nel grande dominio il proprietario volle avere la sua chiesa personale, egli la
fondò, la costruì, la fornì di beni. Pretese anche che fosse il più
possibile indipendente dalla chiesa della città: origine di un conflitto tra
luogo di culto privato del dominus e la chiesa pubblica della città, che doveva
protrarsi fino al XII secolo. Va inserita in questo contesto religioso la
distinzione tra san Lorenzo, protettore della parrocchia e san Giorgio
protettore del comune, il culto dei quali separava probabilmente, anche, gli
abitanti di origine romana dai nuovi signori germanici.
Se si può individuare nella crisi del mondo romano, l'inizio dello
sconvolgimento da cui nascerà l'Occidente medievale, è legittimo considerare
le invasioni barbariche come l'avvenimento che fa precipitare le trasformazioni
in atto, dando loro un andamento catastrofico e modificandone profondamente
l'aspetto. Le invasioni lasciarono piaghe mal cicatrizzate: fecero precipitare
l'evoluzione economica causando il declino dell'agricoltura e il ripiegamento
delle città. Alcuni aspetti, però, sono molto interessanti: furono quasi
sempre delle fughe in avanti. Gli invasori si trasformarono in fuggiaschi spinti
da qualcuno più forte e più crudele di loro. La loro crudeltà si confuse
spesso con la disperazione, soprattutto quando i Romani rifiutarono loro
l'asilo, spesso chiesto pacificamente. La nostra storiografia più popolare ha
in odio il barbaro che annienta dall'esterno e dall'interno questa civiltà,
distruggendola o avvilendola. Eppure altre dovrebbero essere le considerazioni.
Resta documentata l'attrazione che la civiltà romana esercitò sulle
popolazioni barbariche. Non solo i loro capi fecero appello ai consiglieri
romani, ma cercarono spesso di imitare i costumi e ornarsi dei titoli romani:
consoli, patrizi, ecc. Non si presentarono solo come usurpatori e nemici, ma
spesso come ammirati imitatori delle istituzioni romane. Inoltre, se si
considera la presa di Roma di Alarico (370-410) soltanto come uno dei fatti
dolorosi che Roma ha dovuto subire, va sottolineato che, contrariamente alla
maggior parte dei generali romani vincitori che si sono resi famosi per il sacco
delle città conquistate e con lo sterminio dei loro abitanti, Alarico accettò
di considerare le chiese cristiane come luoghi di asilo e le rispettò. La
grande novità fu che quella cosiddetta efferatezza barbara si dimostrò tanto
umanitaria da indicare alla popolazione inerme le grandi basiliche, dove non
sarebbero stati né attaccati, né uccisi.
L'opprimente imposizione fiscale per il mantenimento del numeroso apparato
statale generò l'abbandono delle campagne e lo spopolamento di intere regioni;
tanto che dovettero essere condonati gli arretrati dei tributi fondiari. La cosa
si ripeté sovente in seguito alle incursioni e alle devastazioni dei barbari.
Inoltre, nel 398 la popolazione locale delle zone occupate dai barbari fu
obbligata a cedere ai Germani un terzo delle case e dei poderi, il che ebbe
gravi conseguenze sia per l'amministrazione civica e della giustizia, che per il
sistema fiscale nella riscossione dell'imposte. Nel 420 fu emanata una legge che
permetteva di fortificare le villae (grandi appezzamenti terrieri riuniti sotto
un solo proprietario con la sua residenza, che svolgeva la funzione di centro di
raccolta e di direzione). Attorno alle villae dei pochi ricchi e potenti si
strinsero non solo i loro dipendenti diretti, sparsi nelle loro vastissime
proprietà, ma anche i liberi coltivatori riuniti nei loro villaggi (vici) di
cui il grande proprietario assumeva il patrocinio, costituendo così delle vere
unità sociali, dotate di fatto, se non di diritto, di una larga autonomia, che
in molti casi tendeva ad avere anche un contenuto economico per il sorgere
presso la villa di opifici industriali con manodopera servile, e con
l'intensificarsi di scambi di opere, di servizi, di merci entro il territorio
compreso nelle grandi proprietà.
Fu lo storico Procopio da Cesarea (500 c.a - 565), segretario e consigliere del
generale bizantino Belisario (500 c.a - 565), che ci ha tramandato l'avvenuta
distruzione di Urbs Salvia per opera di Alarico mentre si avviava alla conquista
di Roma. Come riportato nel De bello gothico, di essa non rimasero altro che i
resti di una porta, delle mura e alcuni pavimenti in mosaico. Queste
affermazioni non vanno prese alla lettera, ma inquadrate nelle pessime
condizioni economiche e sociali della popolazione italica nel IV secolo. La
presunta distruzione sarebbe avvenuta nel 408 - 409, ma sicuramente non fu così
catastrofica come ci viene tramandato se, ancora oggi, i ruderi che si possono
ammirare, sono più monumentali e numerosi di quelli riferiti. Inoltre, se erano
rimaste così poche vestigia sparse nella campagna abbandonata, non si potrebbe
spiegare come mai Urbs Salvia avesse ancora il titolo di diocesi, come
testimonia la partecipazione del suo vescovo Lampadio al concilio del 1 marzo
499 convocato in Laterano dal papa Simmaco (IV sec. - 514). Sull'episcopato
urbisagliese, a parte questa fugace menzione, nei documenti non si conoscono
altri accenni. L'unica cosa certa è che solo le piccole città ben organizzate
ecclesiasticamente, dopo il concilio di Sardi del 343, poteva vantare il diritto
della sede episcopale.
Se il racconto di Procopio appare in qualche aspetto assai esagerato, è però
vero che gli sgravi fiscali accordati al Piceno durante quel secolo documentano
il grave stato di depressione economica in cui versavano le campagne. In tale
frangente anche la lenta decadenza delle città fu probabilmente irreversibile.
Di sicuro ci fu un progressivo declino generato dalle lunghe guerre e dalle
relative soldataglie, che scorrazzarono indisturbate lungo l'Italia dopo la
caduta dell'Impero romano d'Occidente.
La guerra gotica e il Piceno
I goti riservarono ai romani le attività burocratiche-amministrative,
mantenendo per sé l'esclusiva dell'esercizio delle arti militari. La guerra,
che oppose i goti ai bizantini, imperversò lungamente nella regione, divenuta
aspro campo di battaglia. Procopio, transitando insieme a Giovanni, generale di
Belisario, ci dà una descrizione concisa e illuminante della situazione
desolante nel Piceno.
Nel giugno del 538, Belisario si era mosso con tutto il suo esercito dalla città
di Fermo, scelta come base d'appoggio, per recare aiuti militari ad Osimo,
assediata dai Goti, passando per la strada collinare interna. Durante la marcia
forzata, giunse ad Urbisaglia, dove l'esercito si accampò presso l'Anfiteatro,
come testimonia il toponimo Parlasium tipico degli accampamenti militari
bizantini. Al suo arrivo accadde il tenero aneddoto di Egisto e la capra, del
quale Procopio fu testimone oculare. All'approssimarsi delle truppe, gli uomini
e le donne romani fuggirono sulle colline vicine in preda al terrore, convinti
che si trattasse di un esercito nemico. Nella concitazione della precipitosa
fuga, un lattante, lasciato dalla madre spaventata, fu protetto ed allattato da
una capra rimasta abbandonata nella città deserta. Quando superato il panico,
la gente romana ritornò nelle abitazioni, vide la capra che teneramente
allattava il bambino, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Il bambino piangeva
ogni qualvolta la capra veniva allontanata da lui, rifiutando con ostinazione il
seno delle donne che si erano offerte per allattarlo. Procopio narra, inoltre,
che al bambino fu imposto dai concittadini il nome di Egisto, ossia Caprolino.
L'uso del nome greco Egisto ci fa sospettare che, nonostante la decadenza della
città, la popolazione godeva ancora di un buon livello culturale conoscendo
ancora la lingua greca.
I Longobardi, i Bizantini e
i Franchi
Verso la fine del secolo, quando non si era ancora spenta la dolorosa eco
dell'infuriare della guerra gotica, si abbatte sulle nostre contrade le violente
scorribande dei Longobardi, mentre imperversava una gravissima carestia.
Nel secolo VII venne effettuata una nuova organizzazione territoriale della
regione, con il fiume Musone a delimitare verso nord la Pentapoli bizantina,
mentre il sud era sotto l'influenza longobarda e unificato al ducato di Spoleto.
Inoltre, nacque un atteggiamento nuovo e diverso nei confronti
dell'introduzione, ai fini fiscali, di ripartizioni di varia denominazione (privilegium,
pievi, parrocchie, distretti, quartieri, terzieri, ecc.) e in generale la
creazione ex novo di entità territoriali intermedie fra l'ambito della diocesi
e del comitato con le singole villae.
Seguirono secoli, nei quali non si rintracciano testimonianze storiche attinenti
direttamente il borgo di Urbisaglia, mentre perdurarono le condizioni di
instabilità politica nelle lotte persistenti tra i longobardi e i franchi. I
problemi posti dalla presenza dei barbari dominarono la storia dell'Occidente
dalla fine del V alla fine del IX secolo. Ma essi si presentano in maniera
diversa a seconda che ci si ponga in età longobarda o carolingia. Il primo di
questi due periodi è contrassegnato dalla coesistenza di popoli che non si sono
ancora fusi, da un pluralismo etnico e culturale, ed anche da un decadimento
politico; il secondo da un tentativo di ricostruzione, di rinascita, di ordine
in riferimento a valori ereditati dall'antichità e adattati ad un nuovo stato
di cose. Soprattutto il dominio dei longobardi, a causa del loro stile di vita
basato sulla caccia e lontano dalla vita della città, contribuì pesantemente
alla rapida decadenza delle città romane e alla rovina del sistema viario. La
dominazione dei franchi è rintracciabile negli anni successivi nei loro nomi
riscontrabili nelle pergamene medievali e per i toponimi lasciati a tramandare
la traccia della loro presenza. Il suolo italico fu teatro di un grande scontro
intergermanico in cui prevalse il popolo più incline alle integrazioni etniche
e agli accorpamenti federativi, pur presentando tassi di primitivismo più alti:
la lex Salica dei franchi conteneva infatti norme sulla condizione femminile e
sul rapporto reato-pena ben più arretrate rispetto alla legislazione
longobarda. In un primo tempo i loro villaggi erano centri provvisori di
sfruttamento agricolo e rifugi dopo le spedizioni di razzia. In seguito, invece,
i franchi introdussero nei loro consueti orizzonti di vita il latifondo e le
città: il latifondo, base di continuità delle famiglie senatorie gallo-romane,
fu sempre più considerato anche dai franchi un elemento imprescindibile nei
processi di rafforzamento delle famiglie aristocratiche; le città; con i loro
vescovi e le loro cariche civili, imponevano un patrimonio di tradizioni
pubbliche ai nuovi dominatori, che in parte lo adattarono alle loro esigenze.
Con la dinastia merovingia prima e successivamente con la dinastia carolingia,
riuscì perfettamente l'incontro tra la cultura germanica - fatta di mobilità,
mito del valore guerriero e tradizione di comando sugli uomini - e quella
latina, fatta di componenti religiose-letterarie, competenze amministrative,
valorizzazione del latifondo e tradizione di potere sul territorio.
Gli imperatori germanici
Quando agli imperatori carolingi succedettero quelli di origine tedesca (961),
cominciò ad affermarsi il nuovo nome di Marca (dal germanico mark, confine),
che sostituirà definitivamente l'antico nome di Piceno. Pare che il primo
riscontro della nuova denominazione sia quello della Marca di Camerino, avulsa
dal ducato longobardo di Spoleto, il quale segnalava il confine dell'autorità
imperiale. Vennero poi la Marca di Fermo, al confine con il regno meridionale,
che si fuse poi con la Marca di Ancona, quando anche questa venne incorporata
nell'impero.
Questo periodo di storia fino al Mille avvolge la città di Urbisaglia nelle sue
nebbie fitte: le informazioni in nostro possesso sono molto scarse. Si hanno
degli accenni di una Curte sancti Benedicti nei pressi dell'attuale abbazia di
Fiastra e di una plebe di san Lorenzo situata fuori delle mura castellane e
originata da un monastero, attorno al quale si erano raccolti i sopravvissuti
alle guerre e alle carestie. Urbisaglia risultava essere un distretto citato
nelle note Carte Fiastrensi come privilegio Urbis Aurea. Inoltre, scavi
archeologici, effettuati presso il teatro romano, testimoniano l'utilizzo urbano
della città anche in epoca post-romana come luogo di sepoltura: è noto infatti
che i Romani non seppellivano mai cadaveri all'interno della città, perché era
riservata solo agli esseri viventi.
La diffusione di monasteri, priorati e cappelle si deve alla feconda opera di
civilizzazione del monachesimo benedettino che, muovendo attraverso l'Umbria, si
irradiò in tutte le Marche in modo capillare, seguendo la fitta trama delle
strade romane, che indicavano le direttrici di penetrazione, promuovendo così
una rinascita spirituale, economica e culturale della popolazione. Inoltre il
maggior impulso edilizio si deve anche alla presenza di signori feudali di
origine franco-germanica, che a partire dal secolo X si affiancarono ai
feudatari ecclesiastici, creando un sistema urbanistico di estrema
frammentazione e dispersione territoriale. Le tendenze autonomistiche delle
popolazioni, ormai abbandonate a se stesse da uno stato inesistente, si
concretizzarono nella provincia con il proliferare di insediamenti di altura, in
luoghi strategici o di passaggio, creando la tipica maglia insediativa delle
Marche attuali.
Dopo questa lunga fase di sconvolgimenti, ne consegue che il feudalesimo e il
movimento urbano sono due aspetti di una nuova evoluzione, che organizza sia lo
spazio, che la società. Il feudalesimo fu una rete di vincoli di dipendenza, i
cui fili andavano dall'alto al basso della gerarchia umana. L'organizzazione
sociale conferì alla civiltà del feudalesimo la sua più originale impronta.
Questi legami si appoggiavano sul beneficio e la protezione, che il signore
concedeva ai propri vassalli in cambio di un certo numero di servizi e di un
giuramento di fedeltà. Infatti, il feudalesimo, in senso stretto, consisteva
nell'omaggio e nel feudo. Poi, a cascata, questa visione e organizzazione
capillare della società si propagò fino agli ultimi strati della società,
dando origine ad una organizzazione gerarchica e refrattaria ad ogni istanza
sociale di cambiamento.
Infine, si rafforzava enormemente il potere pubblico dei vescovi nelle città,
in cui l'assenza dei conti e dei marchesi si faceva sempre più marcata. Con
l'ulteriore conseguenza, dato che il potere vescovile non poteva dinastizzarsi,
di far emergere più nettamente nelle città, accanto ad esso, un potere laico
espressione della piccola aristocrazia locale, più o meno non coincidente con
le famiglie tradizionalmente titolari di honores, intente a consolidarsi
signorilmente nelle campagne.
Era questo un periodo in cui la Chiesa allargava il suo dominio sui resti della
giurisdizione dell'Impero romano, ponendo le premesse per il ripristino della
legalità e del vivere civile.
Urbs Salvia, declinando progressivamente dagli antichi splendori, si ridusse ad
un semplice agglomerato di misere casupole, edificate vicino alle vestigia degli
antichi monumenti. Dalla visione di questo stridente contrasto, il sommo poeta
Dante Alighieri (1265-1321), trasse amare considerazioni sulla caducità delle
umane vicende nel canto XVI del Paradiso:
"Se tu riguardi Luni ed Orbisaglia
come son ite, e come se ne vanno
diretro ad esse Chiusi e Senigaglia
Udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nuova cosa ne forte,
poscia che le cittade termine hanno".
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Dalle
prime pergamene alla prima distruzione di Urbisaglia
1000 - 1251
Nuovo processo di
urbanizzazione
Dopo il Mille ritroviamo la popolazione sparsa sul territorio, con accentramenti
sui crinali collinari di agglomerati urbani, detti castelli o castellari (Leone,
Collalti, Valle Cortese, Buccini, Lamarum, Insule, Canalecche, ecc.) e castri (castrum
Lauri, Molliano, Villa Maina, Orvesallia, Tolentinum, Sancti Genesii, Culmurani,
Ripis, ecc.). Gli abitanti eredi di Urbs Salvia cercarono scampo e salvezza in
questi centri demici, abbandonando l'insidiosa pianura per le alture, che
offrivano maggiori garanzie di difesa e di sicurezza personale. Nella
toponomastica altomedioevale il termine castellare sta ad indicare un
insediamento fortificato, degradato o di recente abbandonato, comunque
modificato rispetto alle sue origini di castello. Mentre la villa indicava in
una proprietà demaniale, spesso di origine longobarda o franca, retta dai
siniscalchi o iudices che dovevano curare gli inventari patrimoniali e i
rendiconti economici di gestione. Inoltre, questo termine generico entro cui
venivano di solito inclusi sia duchi che gastaldi, i quali - come anche gli
ufficiali minori, sculdasci e centenari - sovrintendevano anche
all'amministrazione della giustizia e dovevano impegnarsi formalmente con il re
a garantirne un regolare svolgimento. Stando alle caratteristiche dei villaggi
medievali aperti, la villa non era difesa da mura o altre strutture difensive,
ma esercitava la preminenza sul contado delimitando una propria circoscrizione
rurale.
La migrazione della popolazione dalla valle verso le alture segna storicamente
questa epoca posteriore alla fine della pax romana. Sorse nelle campagne una
vasta rete di castra, terre murate e castelli, di pertinenza laica o vescovile.
Nacquero non solo per necessità difensive, ma anche a seguito delle immunità e
dei privilegi istituiti a favore di chiunque fortificasse una curtis o un borgo
nel proprio feudo. Nel paesaggio esteso delle selve emersero così le mura, le
torri e le dimore di vassalli e valvassori, cui si abbarbicarono le misere
casupole dei servi della gleba.
I castri fungevano da centri direzionali delle curtes, cioè delle unità
operative agrarie, autosufficienti e strutturate sulla base della complementarità
della pars dominica (le terre gestite direttamente dal signore) e della pars
massaricia (le terre date ai servi in forma di mansi o clusi da coltivare). Ai
castri affluivano i magri raccolti e i servi per prestare le corvées, cioè il
lavoro servile di cui il signore faceva loro obbligo per la coltivazione delle
proprie terre o in cambio della protezione personale. Attorno all'abitazione del
signore, sovente fortificata, sorgevano i primi nuclei di caseggiati in muratura
degli artigiani, la cui opera era necessaria alla chiusa economia di
sopravvivenza del castro: il lapicida, il mugnaio, il falegname, il fabbro, il
beccaio, il maniscalco, il bottaio, ecc. L'economia medievale aveva per scopo
primario la sussistenza alimentare degli uomini. Per il popolo minuto era
sufficiente di che vivere nel senso più ristretto del termine, ossia il
nutrimento in primo luogo, poi il vestito e l'alloggio. Questa esigenza di
sostentamento fece sì che fu collocato ogni nucleo contadino su una porzione di
terra necessaria per far vivere una sola famiglia: il manso, terra unius familie.
Le innovazioni tecnologiche diedero maggior impulso alla produzione agraria e
artigiana: l'aratro a versoio, l'erpice, l'uso dell'acqua come forza motrice per
i molini a grano, i frantoi d'olio, le folle per la lavorazione della lana e le
gualcherie per la concia delle pelli. L'economia rurale, sotto la spinta
dell'autosufficienza, raggiunse così un notevole grado di autonomia e
sostentamento, tanto che si può parlare di presenza diffusa di piccoli domini
campagnoli. Nelle campagne i nobili continuarono a portare il titolo di conte,
estendendolo a tutti i membri della famiglia, con la conseguenza che erano
presenti più conti che contee. Mentre, invece i comitatus, restavano l'ambito
territoriale, sul quale esercitava il dominio il primario conte dei distretti
carolingi. Il signore non solo gestiva la sua parte del frutto del lavoro del
contadino, ma organizzava anche la sua vita obbligandolo ad usare i suoi
frantoi, forni e mulini, oltre che la taverna. Inoltre, altri fattori influirono
sulla scarsa produttività della terra medievale: la tendenza dei signori e dei
monaci all'autarchia, conseguenza di realtà economica e di mentalità allo
stesso tempo. Dover ricorrere all'esterno e non produrre tutto ciò di cui si
aveva bisogno, era considerato non solo una debolezza, ma quasi un disonore. Nel
caso di proprietà monastiche, l'evitare ogni rapporto con l'esterno derivava
direttamente dall'ideale spirituale di solitudine, essendo l'isolamento
considerato presupposto essenziale alla purezza spirituale. Quando i Cistercensi
si dotarono di mulini, san Bernardo (1091 c.a - 1153) minacciò di ordinarne la
distruzione perché si configurarono come centri di scambi sociali e, perfino,
come luoghi dove sovente si praticava la millenaria piaga della prostituzione.
Inoltre, la coesistenza su di uno stesso territorio di popolazioni con un
diverso livello di cultura, di civiltà, di mentalità e di modi di vita era
destinato inevitabilmente ad influenzare la legislazione. Solo una popolazione
omogenea avrebbe potuto garantire una legislazione unica, altrimenti per forza
di cose i diversi popoli avrebbero seguito il proprio diritto; così in quel
periodo i romani, i goti, i longobardi e i franchi venivano giudicati secondo la
proprie leggi e consuetudini.
I villaggi erano nuclei abitativi di forma e dimensione varie. Fuori della parte
abitata e per lo più recintata si estendeva l'area coltivata di competenza del
villaggio, con ampi campi prevalentemente destinati a cereali, vigne e prati.
Ancora più all'esterno c'era una fascia di terre comuni: pascoli e boschi
curati dalle comunità per la raccolta di foglie, frasche e legname, per il
pascolo dei maiali, che si cibavano di ghiande dei querceti. Oltre queste zone
(l'abitato, il coltivo e le terre comuni) si estendeva la foresta, percorsa solo
occasionalmente e usata per la caccia.
Urbisaglia come nuovo borgo
In quel tempo Urbisaglia era un borgo di casupole con l'intelaiatura di legno,
con le pareti di mattoni di malta cotti al sole e legati con terra a secco, ad
un solo piano, il tetto di coppi sostenuto da una travatura lignea e con i
casarini (piccoli appezzamenti di terra usati come orto). La sua forma urbana
aderiva alla conformazione morfologica della collina, dove nella parte
predominante sorgeva l'abitazione del signore, circondata da strutture
fortificate e dominata da una torre di difesa. Il borgo, invece, era difeso da
un fossato a secco (detto carbonaria) e da una rustica palizzata di pali. Ogni
borgo per sopravvivere aveva bisogno di un ambiente rurale favorevole e, via via
che si sviluppava, esercitava sulle campagne circostanti, estese
proporzionalmente alle sue esigenze, un'attrazione sempre più egemonica. I
terreni erano accatastati progressivamente in sinaite: la prima vicina al centro
urbano e, a seguire, la seconda e la terza man mano che ci si allontanava verso
i confini esterni, per individuarne subito il valore commerciale e, quindi,
quello per imporre la dativa nella tassazione. La sinacta, poi sinaita, è una
voce longobarda che in origine significava 'il segno che si incide sugli alberi',
poi è passata a indicare semplicemente 'la linea di confine'. Ancora oggi nel
dialetto locale la senata ha il significato di confine.
Nascita delle Marche
La Marca, propriamente detta, venne costituita verso il 1090 dall'imperatore
Enrico IV (1050-1106) raggruppando i territori requisiti alla contessa Matilde
(1046-1115); e fu sottoposta al marchese Guarneri e ai suoi figli. La loro
signoria, detta dei Guarneri per la frequenza di tale nome nella famiglia, sulla
Marca di Ancona e poi anche di Camerino ebbe inizio solo dopo la prima metà del
secolo XI; più tardi un altro Guarneri, figlio del primo, ottenne anche il
Ducato di Spoleto, e la prima sua attestazione documentaria risale al 1094-1095.
Successivamente, nel 1177 fu concessa come feudo a Corrado di Leutzelhald dal
Barbarossa, quindi a Gotebaldo da Senigallia, a Mark di Anweiler, finché nel
1199 divenne possesso definitivo della Chiesa, anche se contesa a lungo
dall'imperatore svevo Federico II (1197-1250) e dal figlio naturale Manfredi
(1232-1266).
Nel territorio di Urbs
Salvia predomina Villamagna
La storia della valle del Fiastra è molto interessante e non sufficientemente
approfondita dagli storici locali. Il Fiastra segna il limes tra il ducato di
Camerino e il comitatus Firmanus; eredi delle circoscrizioni longobarde e
carolingie, sulle quali i rispettivi vescovi esercitavano la giustizia e
l'amministrazione civile. Non a caso Petriolo, Loro Piceno, Sant'Angelo in
Pontano e altri paesi sulla destra orografica del Fiastra rientrano nella
diocesi fermana, mentre Urbisaglia, Colmurano, Ripesanginesio, Sanginesio e
Sarnano appartenevano a quella di Camerino. La cultura del confine segnerà
profondamente le vicende storiche e le relazioni sociali di questi territori sia
in ambito economico che culturale.
Nel territorio, che fu della città romana e della diocesi, si contesero a lungo
l'egemonia politica e economica, sia con numerosi scontri armati che con
provvisori patti di alleanza, da Orvesallia gli Abbracciamonte (signori di
Urbisaglia, chiamati così dal nome del capostipite) e da Villa Maina gli Offoni.
Con ogni mezzo o metodo, lecito o illecito, con le armi in pugno o con la
concessione di vantaggi economici, ognuno di loro operava per attrarre gli
uomini e le proprietà della parte avversa nella propria area di influenza.
Ci sembra importante sottolineare una premessa: i signori dei castri erano di
origine longobarda e si organizzavano secondo la tradizionale struttura della
famiglia germanica, denominata fara, cioè l'insieme dei gruppi parentali che
originavano da un unico avo. Inoltre la terra era ad appannaggio esclusivo della
fara, cioè proprietà comune pro indiviso dei membri della fara, spesso detti
consortes nelle pergamene. Solo nei secoli successivi cominciò a trasformarsi
in un possesso personale. Per questo si rintraccia spesso nei documenti
posteriori innumerevoli vendite concluse su insignificanti frazioni di
patrimonio.
In principio la supremazia nell'agro urbisalviense era a favore dei Signori di
Villamagna, il cui capostipite di origine germanica, il conte Mainardo, aveva
usurpato i possedimenti dell'abbazia di Farfa, dopo che questa era caduta in una
profonda crisi economica in seguito alle feroci scorrerie dei Saraceni, tanto da
trasferirsi da Farfa in Sabina a Santa Vittoria in Matenano nella Marca.
Inoltre, all'abate di Farfa, Ildebrando, scacciato nell'anno 971 dall'imperatore
Ottone I (912-973) poiché aveva donato a figli e pronipoti le proprietà
usurpate all'abbazia, venne lasciata in usufrutto vitalizio la corte di san
Benedetto tra Mogliano, Petriolo e Villamagna, come attestato nel Chronicon
farfense. La decadenza di Farfa non era stata graduale, ma rapida e traumatica:
approfittando del suo stato di debolezza e malversazione in cui era caduto il
monastero, alcune famiglie di piccola nobiltà feudale, rurale, potente e
arrogante, si erano spartite le grandi corti fiastrensi tra il Chienti e il
Tenna e vi si erano insediate.
Offone, figlio di Mainardo consolidò il suo potere, cercando di legalizzare,
nei fatti, le usurpazioni paterne, che si estendevano dal Chienti al Fiastra,
giungendo fino al Tenna, come documentano le Carte Fiastrensi (le pergamene
appartenenti all'Abbazia di santa Maria di Chiaravalle di Fiastra e conservate
fino ai nostri giorni, che costituiscono il maggior fondo documentale della
storia delle Marche).
Le Carte Fiastrensi:
documenti tra cronaca e storia
Furono rinvenute nel 1877 a Roma, mentre si adattava l'edificio del Collegio
Romano dei Gesuiti a sede della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II.
Queste carte hanno un valore documentale molto interessante, ma si bisogna
tenere in giusta considerazione che si tratta di documenti di natura giuridica e
amministrativa, quindi informano solo di questi aspetti della vita sociale del
periodo. Inoltre, per loro natura e per la dispersione avvenuta attraverso i
secoli, le Carte Fiastrensi sono molto lacunose dal punto di vista storico poiché
non erano stilate per tramandare ai posteri le vicende dei protagonisti, ma
tramandano informazioni solo sui personaggi che hanno venduto, donato, promosso
liti giudiziarie, stilato atti matrimoniali, tralasciando chi non faceva ricorso
a simili documenti notarili.
Nei vari atti risulta che, nel 1036 a Osimo, il conte Offone figlio di Mainardo
concesse una charta venditionis et obligationis a Paterniano e ai suoi eredi
sulle loro proprietà, collocate tra Villamagna e Collalto, con il consenso dei
figli Farolfo, Esmido, Ranuccio e Berardo, impegnandosi con giuramento a
riconoscere e a non turbare i loro diritti. Si deduce sin dalla sua comparsa
nella storia che gli Offoni consistessero in una famiglia numerosa, collegata
con un ceppo parentale altrettanto esteso e spesso in disaccordo profondo tra
loro. In assenza evidente di consuetudini di maggiorascato, il quadro che si
presenta relativamente alla nobiltà locale, è quello di un assetto
proprietario estremamente frantumato. Questa fu una delle cause che
determinarono nei decenni successivi la subordinazione di Villamagna nei
confronti di Orvesallia, che, sebbene fosse più modesta, tuttavia prevalse,
barcamenandosi poi a seconda dei propri vantaggi tra l'appoggio al papato e
all'imperatore; mentre gli Offoni restarono tenacemente fedeli alla Chiesa.
Nel 1045, il conte Bernardo, figlio di Offone, con il consenso del figlio
Bernardo e della propria moglie concedette un molino al monastero di san Michele
di Pian di Pieca, soggetto all'abbazia di san Flaviano di Rambona. Altri nobili
proprietari operarono nella zona; i coniugi Rando di Pietro, con la moglie
Berta, donarono al monastero di san Salvatore di Rieti, e alla dipendente cella
di santa Maria di Tolentino, che mutò nome in san Catervo divenendone la
cattedrale, cento moggi di terra in contrada Spescie e altri cento nel fondo
Buteno. Ancora, nel 1060 il conte Mainardo, figlio di Bonante, donò a Gisone,
arcipresbitero di santa Maria di Tolentino, metà delle sue proprietà situate
nel castro di Collalto con lo stesso castro e in contrada Spescie. Durante il
1070, il vescovo di Fermo, Ulderico, stipulò un contratto di permuta con
Grimaldo di Attone, influente feudatario con vasti possedimenti nel fermano e
nel maceratese, cedendogli estese proprietà situate tra Colbuccaro, Petriolo e
Montolmo. La pergamena è importante per la nostra storia, perché per la prima
volta viene citata Urbisaglia in un documento scritto: Et pro hac commutatione
suscepi a te dicto Oldericus episcopus de pars sancte Marie Firmane ecclesie
idest res ... que est in fundo Csippa a vocabulo Collucculo et in fundo ... et
in fundo Collegulo et in fundo Orvessalia et per alia vocabula cum ipsa portione
de castello de Culbuttulo et de pojo de Collecillo ... castella cum ipse
ecclesie de ipsa portione que fuit de Butto et quanto ipse dicte castelle
ecclesie pertinet vel pertinere debet que est ipsa res inter adunata et exunata
per mensuram modiorum IV cum omnia que super se habent que est per fines: a
primo latere fluvio Clentis, a secundo latere fluvio Gremone, a III latere fine
via que venit da Ripalta et vadit in Gremone, a IV latere via que vadit da
Gremone a capo Villa Maina et venit da Orbesallia et a Colle Alto pergit in
Clenti.
Nel maggio del 1077, lo stesso Grimaldo di Attone rinunciò ai propri diritti
sui possedimenti immobiliari in Villamagna infra privilegio Urbisaurea, in fundo
qui dicitur Collini Araveccla a favore di Farolfo di Offone, e gli rilascia la
quietanza - unde salvabitur Grimaldus Attone X libras denariorum Papiensium, pro
maleficio quod fecit in ipsam senaitam Villa Magna - per risarcimento. Il
maleficium viene normalmente tradotto dagli storici con il significato di
omicidio. Negli antichi diritti germanici la pena per l'omicidio, come per gli
altri delitti commessi da un uomo libero, era rappresentata da una composizione
in denaro, che variava a seconda del rango della vittima. Questo veniva chiamato
guidrigildo, parola longobarda analoga al tedesco Wergeld, che era appunto il
prezzo di un uomo, la somma che l'omicida era tenuto a pagare per indennizzare i
parenti della vittima, che in tal modo avrebbero rinunciato a esercitare il
diritto di rappresaglia. Nel nostro caso, sembra che sia da interpretarsi come
una disputa sorta all'interno dello stesso ceppo consortile per la proprietà di
alcune terre, e che nella accesa contesa si fosse giunti a commettere un
omicidio. Allora il colpevole, per non innescare una venefica faida di vendette
continue, promise di rinunciare al patrimonio in favore dei parenti dell'ucciso.
Quanto al termine privilegium esso è sinonimo, comunque affine a quello assai
più frequente di ministerium (divisione amministrativa territoriale per lo più
giuridica), al quale furono concessi particolari privilegi economici o fiscali.
Nel maggio del 1098, Alberto di Appone, al momento di insediarsi in Villamagna,
fece atto di fedeltà per sé e i suoi uomini al conte Lamberto con l'impegno di
rinforzare le fortificazioni del castro e di riservargli l'homagium come atto di
sottomissione. Il conte Lamberto, forse figlio o nipote del primo Offone, fu il
capostipite dei due rami derivati dai suoi figli Pietro e Farolfo, in cui
appaiono divisi i conti di Villamagna nei secoli successivi; mentre Appone
potrebbe essere del ramo dei conti di Montappone.
Nel febbraio del 1102, tal Gisalberto fece una donazione pro anima al preposto
Pietro di santa Maria di Tolentino di una terra in contrada Brancorsina, nei
fondi Pomarola e Colli Vasari. In vari anni successivi fecero lo stesso Pietrone
di Morico, con il consenso della moglie Gasdia, donando nelle mani preposto
Alberto in rappresentanza dell'abate Pietro; Attone di Orso con la moglie Gasdia,
elargendo al preposto Berterammo alcune terre in Pomarola e Plano de Rainuctio;
Orso di Pietro, con il consenso della moglie Riborga, cedendo pro anima al
preposto Alberto due terre: una in contrada Brancorsina e l'altra in Pomarola.
Nel gennaio del 1119, Bonconte e Alberico, figli del conte Lamberto, con il
benestare dello stesso Lamberto e della loro madre Cederna, rinunciarono in
favore dei fratelli Farolfo e Pietro alla propria parte dei diritti sui castelli
e le corti di Cessapalombo, Brugiano, Villamagna e Petriolo, qualora non
avessero una discendenza maschile; si impegnarono, inoltre, a non effettuare
altre donazioni o vendite il cui valore fosse superiore al valore di 5 soldi. E
uno dei pochi casi di maggiorasco imperfetto, che si verificano all'interno di
questa nobile famiglia, e che sarà all'origine del suo decadimento magnatizio.
Nel marzo dell'anno 1122, Alberto, Ugo, Guglielmo e Tebaldo, figli del conte
Offone, vendettero a Gisone una posta atta ad edificarvi un molino in un posto
denominato Isuria Uvoni. La proprietà di un molino è molto importante
nell'economia chiusa dei castri e il suo possesso indicava il conseguimento di
un buon livello di prosperità economica.
Il 2 settembre 1122, con il concordato di Worms fra papa Callisto II e
l'imperatore Enrico V, due grandi poteri universali del mondo conosciuto si
riconobbero reciprocamente e concordarono forme di gradimento di entrambi sui
vescovi eletti. L'assenso del re era necessario perché nessun vescovo avrebbe
rinunciato volentieri ai diritti di tipo pubblico (regalia) che esercitava sulla
città e sul suburbio per lo più da tempo immemorabile; da quando i primi regni
franchi avevano avuto bisogno della collaborazione politica e militare di quei
prestigiosi personaggi, a cui i cittadini obbedivano di buon grado.
Nell'agosto del 1141, Guido, priore di santa Maria di Loro nel fondo Gemuli,
insieme al cappellano Rustico e altri chierici, promise a Pietro, figlio del
conte Lamberto e a Bernardo, figlio di Farolfo, di riconciliare chiesa di san
Valentino e di celebrare un ufficio religioso per i suoi morti in occasione
della festa di Ognissanti, ricevendone in cambio di alcuni appezzamenti situati
in valle Ofredi e in altre località.
Nascita dell'abbazia
cistercense di santa Maria di Chiaravalle di Fiastra
Ma in questo particolare scorcio della valle sorse un terzo contendente, che
raggiunse rapidamente una predominanza economica, religiosa e culturale,
soffocando sul nascere qualsiasi possibilità di sviluppo per l'insediamento di
un forte centro comunale: l'abbazia cistercense di santa Maria di Chiaravalle di
Fiastra fondata nel 1142 da Guarneri, marchese di Ancona e duca di Spoleto.
Guarneri II (Werner) era a Modena nel 1155 in compagnia di Federico, partecipò
nel 1159 all'assedio di Milano e morì davanti alla città di Crema nello stesso
anno. L'abbazia venne edificata sotto Collalto ed affidata alla gestione di
Bruno, abate cistercense proveniente dall'abbazia di Chiaravalle di Milano. Non
fu certo per caso che il sito prescelto si trovasse accanto a quella corte di
Villamagna e a quel castello di Collalto, i cui signori discendenti da Mainardo
usurpatore di quei possedimenti, cedettero subito le terre necessarie al primo
sviluppo dell'abbazia, e in fasi successive finirono per trasferire a Fiastra
tutto il loro patrimonio e gli stessi diritti feudali su Villamagna e Collalto.
Il monastero e la sua chiesa non furono, agli occhi di coloro che la videro
sorgere e prosperare, solo edifici di culto o luoghi di perfezione spirituale,
ma il simbolo della società perfetta, la realizzazione apostolica che la
imperfezione degli uomini rende impossibile tradurre in atti per tutti e che i
monaci continuamente proposero come esempio e insieme monito. La data di
fondazione dell'abbazia non è certa e oggetto di tediose disquisizioni, poiché
tutte e due i documenti che si riferiscono alla fondazione dell'abbazia sono dei
falsi originali, ma dal punto di vista storico non fa differenza se questa
avvenne in un breve lasso di tempo differente; resta il fatto fondamentale che
fu creata questa istituzione monastica e continuò a prosperare in questo
territorio. E resta il dato storico di come queste istituzioni protessero la
ritirata della civiltà precedente rispetto al regresso imperante del mondo
occidentale, mentre le mura delle città avrebbero preparato il contrattacco e
la rinascita della civiltà stessa.
Le nuove fondazioni cistercensi venivano create inviando non meno di dodici
monaci, provvisti di libri liturgici e di quanto necessario per vivere, pregare
e lavorare; e in più un certo numero di conversi, se necessario. Questa piccola
comunità eleggeva subito un abate, dandosi una struttura organizzativa
funzionale agli scopi prefissati dalla Regola.
I monaci parteciparono assai limitatamente ai dissodamenti, perché conducevano
una vita di tipo quasi signorile, essendo dediti più ai beni spirituali che a
quelli materiali; la loro vita è definibile quasi oziosa, nel senso latino del
termine. Inoltre, si stabilirono in radure già parzialmente dissodate; essi si
preoccuparono di allevamenti e quindi in misura minore di estendere i campi
coltivabili. Infine, le grandi abbazie ebbero maggior cura a difendere il loro
deserto, tenendo a debita distanza i contadini, contribuendo così a preservare
gli ultimi residui di boschi e di selve - luoghi isolati per le loro preghiere -
contro i dissennati dissodamenti del periodo.
I monaci dell'abbazia di Fiastra raggiunsero una notevole potenza economica
attirando numerose donazioni pro anima e acquisendo molteplici appezzamenti.
Molti di questi atti di vendita, di donazione, di enfiteusi su proprietà appena
donate o di semplici trasferimenti di possesso dai proprietari ai monaci
presentano aspetti meno lineari di quanto appaia ad un primo approccio. I dubbi
che suscitano agli storici derivano da alcune ipotesi: se queste operazioni di
carattere patrimoniale non nascondano al loro interno versamenti di interessi
tenui o rilevanti, comunque sempre illegali nella concezione giuridica del
tempo. La legislazione canonica coeva vietava drasticamente di effettuare
prestiti su pegno di beni mobili e immobili, gravandoli di interessi in denaro o
natura. Ma i divieti non impedirono che la pratica continuasse; sortì solo
l'effetto di evitare nei documenti contabili e notarili il benché minimo
accenno al versamento di interessi, ma fu utilizzata una grande varietà e
complessità di formule giuridiche nella stesura degli atti stessi per evitare
di incappare nelle pesanti sanzioni previste. Si tratta di operazioni
illegittime molto diffuse nella pratica del tempo, spesso contraddistinte nelle
diverse fasi delle stipulazioni e avallate, in caso di insolvenza, dall'azione
di un mediatore investito dalle parti in causa per il rispetto delle clausole
contrattuali non scritte. Schematizzando le operazioni furono spesso dissimulate
da donazioni seguite con il rilascio del contratto di enfiteusi o cessioni
usufruttuarie e vitalizie. Ma questo è un terreno molto scivoloso, dove è
molto facile incappare in marchiani errori di valutazione e dove il
discernimento è molto problematico, poiché i documenti potrebbero essere
interpretati in tutt'altro modo: i nobili proprietari per proteggere le loro
terre, le donavano a monasteri e abbazie per difenderle da feudatari più
prepotenti e aggressivi, ricevendole poi indietro sotto forma di contratto di
enfiteusi. Infatti, le proprietà ecclesiastiche godevano di maggiori protezioni
imperiali e papali e di forti esenzioni fiscali, quindi i nobili, che restavano
comunque proprietari a tutti gli effetti, potevano sotto la protezione abbaziale
usufruire dei numerosi privilegi e vantaggi economici.
La prima donazione pro anima documentata risale all'agosto del 1140, quando
Gezerammo di Albrico, un importante feudatario di Montecchio e signore dei
castelli di san Lorenzo e Monteacuto, cedette per un prezzo convenuto a Bernardo,
abate di santa Maria di Chiaravalle di Fiastra, i propri diritti su una terra
nel fondo Ricina, in vico santa Maria in Selva, nel comitato di Osimo. Seguirono
altre donazioni pro anima, dettate da una visione religiosa del periodo. Sin dal
secolo X - e non solo da allora - aveva fatto breccia nell'incultura del tempo
che solo i monaci, avendo seguito fino in fondo i consigli evangelici
rinunciando al mondo, passavano dalla vita terrena a quella celeste senza
interruzione di continuità. E lo stesso premio era riservato anche a chi moriva
tra le mura di un monastero. Questa concezione di particolare religiosità
indusse molti proprietari terrieri a trasferire i loro beni ai monasteri, o
addirittura a farsi conversi all'approssimarsi della morte, per accedere a
questo privilegio.
La prima acquisizione documentata avvenne nel 1147; Giovanni, priore
dell'abbazia, rilasciò una quietanza dopo una lite con Pietro, prevosto di san
Pietro di Sanginesio, per diversi modioli di terra in Pian di Pieca. Alla firma
dell'atto presenziarono numerosi notabili, con Todino, vescovo di Camerino, e
Angelo, abate di Rambona.
Gli stessi Offoni a più riprese donarono all'abbazia alcune proprietà. In
diverse occasioni, Berardo, figlio di Farolfo effettuò donazioni e vendite con
il consenso della moglie Jerosolima, insieme a Forte e Offreduccio, figli del
conte Pietro, con il consenso della loro madre Morica. Prima del 1153, Bernardo,
abate di Fiastra, assegnò agli stessi e ai loro discendenti maschi, le stesse
terre, precedentemente donate, in enfiteusi, esclusa una parte che conservò per
esigenze del monastero e assumendo delle incombenze particolari per la
discendenza femminile della famiglia.
Non furono solo i principali signori di Villamagna a rivolgere le premure verso
l'abbazia di Fiastra, ma anche quelli di Colmurano imparentati con loro. Nel,
1154 Marescotto di Offone procedette a una sostanziosa donazione nei confronti
dell'abbazia: la quarta parte del castello e del girone di Colmurano ... cum
quarta parte hominum et cum mansis et servitiis eorum et omnium possessionum de
terris, vineis, arboribus, ecclesiis, molendinis, aquis, aquarum decursibus,
rotis, silvis, pascuis, terris cultis et incultis, domibus et plateis, quas
habet cum consortibus meis ... juxta territorium Urbisalie, Montis Nereti,
Tolentini, Virginni, Lori et de Ripe, mediante Flastra et rivum Guedertioli et
Lentoca. Segue la pedissequa specifica dei numerosi possessi donati all'abbazia
nominati singolarmente. La cosa è molto indicativa del fatto che la cerchia del
territorio conosciuto era molto ristretta, ma al suo interno molto approfondita,
avendo ogni luogo un toponimo risaputo da tutti. Inoltre, il gruppo parentale
degli Offoni fu probabilmente più ramificato di quanto i documenti in nostro
possesso ci lasciano intuire. Le donazioni degli Offoni sono attestate a favore
dell'abbazia di Fiastra con regolarità per tutto il secolo; anche gli altri
feudatari, fedeli e soggetti agli Offoni, stipularono diversi atti di donazione
e di vendita, con il consenso degli Offoni stessi. Amico prete e Paterniano,
figli di Benedetto, Alberto e Attone, figli di Amico, beneficiarono l'abbazia
attraverso l'abate Bernardo di una terra in fondo Fiastra, nelle località
Pesceria e Valcortese.
Alberto di Azzone, in due occasioni beneficiò l'abate Pietro di terre in
Valcortese, una contrada di Villamagna. Tra le varie donazioni merita una
citazione quella di Nicodemo di Attone del marzo del 1163, nella quale sembra
sopravvivere un'antica prassi giuridica longobarda: il launechild (launegildo),
una forma di pagamento inteso a rendere valida una donazione tra i vivi, anche
se non era prevista per le donazioni a luoghi pii. Ormai l'abbazia di Fiastra
aveva esteso la sua proprietà in tutta la zona di Villamagna e dintorni, tanto
che nel 1165 Berardo di Farolfo con Forte e Offone, figli del conte Pietro,
rinunciarono al controllo giuridico sulle loro proprietà, promettendo di non
costruire senza il consenso dell'abate Pietro alcun castello o abitazione sotto
la gravosa pena di 400 bisanti d'oro, ricevendone in cambio di tale promessa un
cavallo. Questa strana disposizione fa riferimento al contesto della regola dei
cistercensi, che stabiliva di edificare i monasteri in luoghi a conversatione
hominum remotis; lontano dalle città o dai centri abitati, in modo che non
fossero disturbati dalla conversazione degli umani. Il contratto sottoscritto
dai conti di Villamagna implica forse precedenti tentativi di fortificazione del
territorio di loro giurisdizione, prima che venisse donato all'abbazia per
riaverlo successivamente in gestione con un contratto di enfiteusi. Inoltre, la
vicenda é molto rivelatrice sul solido predominio ormai esercitato dai monaci
in questa vasta area.
Nell'agosto del 1167, Giuseppe di Alberto di Pietro, confermò all'abate Pietro,
tutte le donazioni che suo padre aveva fatto al monastero a suo tempo,
ricevendone al contempo dall'abate i medesimi beni immobili in enfiteusi, per il
prezzo del canone annuo di 30 soldi provisini insieme ad una libra di cera.
Non solo lungo il Chienti e lungo il Fiastra si estesero le donazioni a santa
Maria di Chiaravalle di Fiastra: molte riguardavano le zone presso Morrovalle,
presso Civitanova, a Numana, a Recanati, a Osimo, nel Fermano e perfino
nell'Ascolano. Queste donazioni pro anima, e con il completamento di acquisti
mirati, permisero il sorgere di grandi appezzamenti di terreno, che nella
denominazione cistercense prendono il nome di grancia. La parola deriva
dall'antico francese granche, 'granaio'; e assunse il significato di proprietà
ampia e compatta, accorpata intorno ad un centro edilizio di gestione aziendale.
Le grancie dell'Abbazia di Chiaravalle di Fiastra furono localizzate in santa
Maria in Selva (a Treia), in Sarrocciano (a Corridonia), Montorso (a Numana),
Brancorsina e Collalto (Tolentino), santa Croce al Chienti (a Santelpidio),
Valle Cortese (tra Mogliano, Petriolo e Villamagna) e quella cosiddetta Lanzani.
I conti di Villamagna
Frattanto, i conti di Villamagna si avviavano, così, verso una ineluttabile
decadenza politica ed economica per la presenza ingombrante dell'abbazia.
Seguirono negli anni successivi vendite e lasciti ereditari, che trasferirono
sempre maggiori ricchezza e potere nelle mani dell'abbazia, togliendo sostanze e
preziose risorse economiche ai Signori di Villamagna. Nell'aprile del 1170,
Offone di Pietro donò a Pietro, abate di Fiastra, i suoi possessi nel fondo
Planum Villemaine e sotto Collalto. Quattro anni più tardi, lo stesso, insieme
con Matteo, Rinaldo e Farolfo figli di Bernardo, rifiutò all'abate Pigolotto la
proprietà di una terra in Villamagna e di un'altra in plano qui vocatur de
Alberto Raineri, quietando ogni disputa esistente e ricevendone in
riconoscimento due buoi e una giumenta.
Anche gli stessi marchesi di Ancona decaddero in ristrettezze economiche
ricorrendo a dei prestiti; tra il 1170 e il 1177, Guarnerio e Gualterio,
concessero alle abbazie di santa Maria di Fiastra e santa Maria in Selva, contro
un versamento di 10 lire lucchesi, le rendite di due terre in Montemilone, per
il tempo necessario all'estinzione del debito contratto. Nel documento è
esplicitata quasi la funzione delle banche attuali, che spesso le abbazie
assolvevano. Come in un'altra pergamena del 29 ottobre 1178, dove alla presenza
di Pietro, vescovo di Fermo e suo tutore, Tebaldo di Compagno si fa restituire
la somma di 20 iperberi (monete d'oro dell'poca) da Amico, cellario di Fiastra,
affidatagli in precedenza dal padre in deposito.
Numerosi altri piccoli feudatari di campagna fecero sovente donazioni o
vendettero all'abbazia terre, ampliando i già vasti possedimenti: Nobilino di
Alberto Nobilino donò una terra nella corte di Villamagna, località lu planu
de la Preta; Amerigo e Trasmondo, figli del prete Aimerigo, devolse una terra in
Valcortese; e Bernardo di Trasmondo cedette una terra nel fondo di san
Valentino, località Moglie.
Inoltre, uno degli Offoni, Rainaldo, mentre stava ammalato a letto in un
terraneo (casa di campagna ad un solo piano, che sopravvivono fino ai nostri
giorni e vengono definite come case di terra) a Villamaina, dettò nel
testamento le sue ultime volontà, lasciando erede l'abbazia di Fiastra di tutti
i suoi possedimenti, qualora la moglie incinta avesse partorito un figlio nato
morto o che fosse deceduto prima del raggiungimento della maggiore età, fissata
a 12 anni se femmina e 14 se maschio.
Le Marche: territorio di
confine e di conflitto tra imperatore e papa
Frattanto, il passaggio di Cristiano, arcivescovo di Magonza, lasciò nella
Marca una scia di sangue con la distruzione di Fermo, al quale poi vengono
riconfermati tutti i privilegi precedenti sul suo vasto territorio fino ai
confini del Fiastra. Anche l'imperatore Federico I Barbarossa di Hohenstaufen
(1123 c.a - 1190) appoggiò il vescovado di Fermo, mentre il papa Alessandro III
(inizi XII secolo - 1181) da Venezia invitò i Signori del circondario a
restituire le proprietà usurpate e strappate con le armi o con l'inganno al
vescovo.
I Signori di Urbisaglia:
scontri e confronti con i castri e i domini loci vicini
Nel 1187, fecero la loro comparsa documentale nella media Valle del Fiastra i
Signori di Urbisaglia con Abbracciamonte, figlio di Ramno, che vendette
all'abate di Fiastra Ruggero ben 65 modioli di terra nelle contrade di
Brancorsina, piano di Rainuccio, Pomarola, Randonisco e Collalto per 64 soldi e
un imprecisato numero di preghiere per la redenzione dell'anima dei propri
parenti defunti, con la mediazione di Matteo dei conti di Villamagna denominato
investitor. In questa lenta fase di declino egemonico dei Signori di Villamagna
si presentò un'occasione favorevole al nuovo arrivato, che aveva la sua base di
appoggio nella collina di fronte a Villamagna, dove si era sviluppata la nuova
Orvesallia, e che cercava di emergere nel panorama dei domini loci,
simpatizzando con il principale dei loro e sgomitando contro gli altri possibili
contendenti.
Nel 1191 Gotebaldo, figlio del marchese della Marca Gualterio, riconfermò i
privilegi e le possessioni che il padre aveva concesso all'abbazia nell'atto di
fondazione; mentre continuarono le liti tra i Signori di Villamagna. Rainaldo,
figlio di Gilberto conte di Falerone, con il consenso della moglie Florisenda e
dei figli Ruggero e Filioesmidonis, rimette a Matteo di Berardo, ogni lite sui
possedimenti in Villamagna in cambio di due cavalli, di cui uno appartenente
alla dote della moglie e l'altro valutato ben 100 lire. Nello stesso giorno, il
21 agosto, Matteo promise gli stessi possedimenti all'abbazia di Fiastra alla
presenza del marchese di Ancona, Gotebaldo. Per converso, Gualterio, figlio
minorenne di Abbracciamonte, si appoggiava politicamente all'abbazia di Fonte
Avellana, alla quale donò la chiesa di san Biagio con alcuni appezzamenti di
terra e il cadente castellare sancti Blasi in contrada Murlungu, addossato quasi
certamente alla cinta muraria romana di Urbs Salvia, il 15 settembre 1192. La
presenza di un tale culto e l'ubicazione della chiesa stessa sono il documento
più tangibile della minacciosa presenza dei Saraceni nei secoli precedenti, in
quanto questo santo, oltre che protettore dal mal di gola, era considerato
paladino contro le invasioni degli infedeli.
Nel giugno del 1193, furono altri proprietari residenti a Villamagna, Bernardo,
Pietro, Offreduccio e Baligano, figli di Falerone, con il consenso della loro
madre Pulcreneve e delle loro rispettive mogli Altaneve, Capitania, Alfreda e
Tasselgardesca, a cedere le loro proprietà a Matteo e Forte di Villamagna, per
porre fine ad una annosa lite civile e penale, al prezzo di 50 lire lucchesi e
alla consegna di un cavallo bono et optimo. L'atto venne redatto a Falerone e
riguardava le proprietà che erano state precedentemente acquistate dal conte
Bernardo, corrispondenti alla sesta parte del castro di Villamagna. Questi
nobili erano i signori di Falerone, tra loro si distinsero Baligano per
l'influenza politica che ebbe nell'alta valle del Fiastra e a Fermo: concluse
annosa vertenza per l'eredità della moglie, mediante una rimunerativa
transazione con Adenulfo, vescovo di Fermo; più volte ricevette la
dichiarazione di sudditanza del vassallo di Malvicino, castello presso l'attuale
Sarnano; stipulò un'alleanza con Tolentino contro Sanginesio, al quale tolse
San Costanzo e Rocca Colonnalta; rivendicò con esito positivo i suoi diritti
sui vassalli di Loro Piceno; e morì verso il 1250. Mentre un altro suo
fratello, Rinaldo detto il Pellegrino, dopo gli studi all'università di
Bologna, divenne fervente seguace di san Francesco d'Assisi (1182-1226), dopo
averlo incontrato e conosciuto sulla pubblica piazza di quella città.
Come si può facilmente arguire, Matteo cercava di impedire l'inevitabile
declino e rafforzare la sempre più debole egemonia dei Signori di Villamagna.
Dapprima, la sua tenace azione raggiunse apparentemente gli scopi che si era
prefissato, ma alla lunga i suoi sforzi risultarono vani, poiché questo tipo
subalterno di società civile stava scomparendo e Tolentino, che si affacciava
allora nella Valle del Fiastra, era troppo in promettente ascesa per non
approfittare della debolezza dei vicini legati ad una concezione della società
antiquata e non attrezzata ai bisogni dei nuovi tempi. Tolentino iniziò allora
la conquista del contado, ove erano le proprietà di antichi monasteri, come
quello di san Salvatore della stessa Tolentino, ma soprattutto i castelli, le
terre e i diritti ad essi connessi di una nobiltà feudale indebolita, sui cui
Comune e abbazia di Fiastra, avevano rivolto i loro appetiti.
Gualterio perseguiva una diversa strategia: ancora giovane ed inesperto si
barcamenava tra comuni troppo invadenti, appoggiandosi ora ad uno, ora ad un
altro, e cercando di aumentare le possibilità di sopravvivenza e di autonomia.
Nel 1194 promise di incastellarsi in Sanginesio con i soliti patti e al quale
concesse, inoltre, il vassallaggio di alcuni uomini abitanti nei suoi
possedimenti in curia Calviani et plebis sancti Andree, situati presso Pian di
Pieca.
Frattanto, nel gennaio del 1195, Matteo di Villamagna e Forte di Offone
depositarono presso l'abbazia alla presenza di numerosi testimoni un piccolo
tesoro composto da 30 lire lucchesi e 12 soldi, un drappo di stoffa, undici
rocchetti di seta, un paio di orecchini d'argento, due anelli d'oro e tre
d'argento e un falco d'oro (probabilmente una riproduzione di aquila, simbolo
delle legioni romane). Il tutto aveva un valore complessivo di 70 lire.
Sicuramente i Signori di Villamagna non attraversavano un periodo favorevole,
anche perché a luglio dello stesso anno Gualterio di Abbracciamonte, ancora
minorenne e assistito dalla madre, rinunciò all'incastellamento in Urbisaglia
di Matteo e di Forte, sciogliendoli dai patti fatti al proprio avo e a lui
stesso, incamerandosi, però, le case che i due avevano edificato in Urbisaglia
e riappropriandosi dei mulini che erano stati loro concessi alla stipula delle
promesse non mantenute. L'atto fu redatto presso Tolentino nella curia del
marchese della Marca, Mark de Anweiler.
Tentativo di libero comune a
Villamagna
Certamente Matteo di Villamagna aveva già in mente di perseguire l'ambizioso
progetto, illustrato da una pergamena del 31 dicembre dello stesso anno: la
costituzione di un libero comune sui suoi possedimenti, con l'assenso della
moglie Ammirata, di Forte e Siginetta (trasferitasi successivamente a
Cessapalombo), figli di Offone, e di altri consortes, Albrico, Americo e
Trasmundo.
Il tentativo è degno di nota perché risulta essere stato uno dei primi
documentato nella Regione e perché tendeva di far fare un salto di qualità
alla corte di Villamagna per divenire un castro: i suoi abitanti vi avrebbero
trovato rifugio in caso di guerra; mentre in tempo di pace vi avrebbero concorso
per amministrare la giustizia o assolvere le prestazioni alle quali erano
tenuti. Nell'atto si stabilirono i confini del nuovo comune e si garantì la
sicurezza personale e le libertà ad ogni singolo abitante. Sarebbero stati
donati 18 piedi di terra edificabile a chi avesse collaborato nella costruzione
delle mura cittadine; si sarebbero salvaguardati i diritti feudali dei nobili;
nessun pedaggio sarebbe gravato sul transito delle merci destinate alle fiere ed
ai mercati di Villamagna; nessuna tassa o dativa era imposta a carico degli
uomini liberi; il costo della edificazione delle mura cittadine sarebbe stato a
totale carico dei nobili e, infine, i due consoli o rettori del libero comune
sarebbero stati eletti uno dal popolo (popolaribus) e l'altro dalla nobiltà (dominis).
Se i Signori firmatari fossero venuti meno, anche ad una sola delle clausole
previste, sarebbero incorsi nella pena di mille lire lucchesi da restituire ad
ogni singolo uomo libero, che avesse sottoscritto e aderito agli impegni
enunciati.
La frammentazione della società medievale fra nobili, chierici e contadini,
sottoposti ognuno a forme di soggezione personale specifiche e differenziate, fu
la caratteristica peculiare del periodo. Tuttavia, distinti e spesso
contrapposti a queste classi, erano sempre esistiti nuclei isolati di mercanti e
artigiani, che rivoluzionarono l'economia, dando origine alla massa potente
della classe urbana. Se l'agglomerazione nelle città e nei borghi restava in sé
anonima, gli uomini, che ne facevano parte, possedevano una concezione
differente della organizzazione sociale, vedendo nella imposizione dei vari
balzelli, nelle molteplici forme di dominazione sul territorio, nelle immunità
godute dalle chiese o dai propri vicini, intralci insopportabili alla libertà
dei propri guadagni. In sostanza, sia la città che il borgo sognano di
pervenire ad innovative libertà, essendo un corpo completamente estraneo alla
società del Medioevo. Oltre a rafforzare la propria autonomia, i borghesi
scavalcarono i poteri dell'aristocrazia locale, ricorrendo direttamente ai
grandi poteri superiori: il papato e l'imperatore. Così facendo distrussero uno
dei capisaldi del Medioevo nel suo elemento più caratteristico: il
frazionamento dei poteri. A rendere visibile la nuova visione del convivere
civile fece la sua comparsa il giuramento collettivo dei cittadini. Questa
associazione giurata prese il nome di Comune, suscitando da subito gli odi
violenti di un mondo fortemente gerarchizzato. Il comune é per l'Italia la
grande novità di questo periodo, che sancisce sul piano istituzionale il
trionfo delle realtà urbane, il primato dello sviluppo imperniato sulle città.
Le città italiane a differenza di quelle straniere, di regola isole libere
entro più vasti territori feudali, si erano costituite a capoluoghi dominanti
su ampie zone rurali, perché svolsero la funzione primaria di conquista ed
organizzazione dell'area circostante. I castelli del contado con i loro signori
titolari di dominatus loci, eventualmente riconosciuti dall'Impero come
feudatari, dovevano in un modo o nell'altro raccordarsi al vicino comune ed
entrare nella sua sfera d'azione politico-militare, che era anche la sfera
economica d'importanza primaria per la città. Era essenziale per evitare che ci
arrivasse prima qualche altro vicino, che si sarebbe in tal modo irrobustito,
avanzando anche inevitabilmente maggiori pretese. E l'espansione che avvenisse
con la forza o con la persuasione (sottomissioni articolate in capitula),
significava estensione dell'area economica cittadina con i suoi pesi e le sue
misure, con la tassazione dei nuclei familiari, delle terre e del bestiame,
nonché la sostituzione dell'amministrazione signorile con funzionari, dotati di
un minimo di competenza tecnica in quanto notai, inviati dal governo cittadino.
Ma, il tentativo di Villamagna non sopravvisse a lungo, perché venti di guerra
percorrevano la Marca. Si costituirono tra comuni limitrofi diverse alleanze per
salvaguardarsi da avversari manifesti, come quella rectam societatem stipulata
tra Montecchio e Camerino contro Sanseverino, nel 1198. I signori di Villamagna
ben presto si trovarono in difficoltà economiche e politiche. Matteo e Forte
dovettero svendere numerose proprietà all'abate di Fiastra e chiedergli un
prestito di 150 lire lucchesi, lasciando in pegno alcuni terreni. La somma
probabilmente venne utilizzata per liquidare le pretese e i diritti di Giorgio,
marito di Siginetta, al quale la moglie aveva concesso tutte le proprietà in
Villamagna, a Brusiano e a Cessapalombo. Così a proseguire questo esperimento
restarono solo Matteo e Forte. La situazione politica precipitò quasi subito,
tanto che il marchese Mark de Anweiler, rappresentante dell'imperatore, assediò
e distrusse il castro, forse perché la sua fondazione era stata stabilita a sua
insaputa, o perché presagiva che stessero per nascere nuove aggregazioni
popolari, autonome dal potere imperiale (i comuni). Nella storia dell'impero
germanico poche figure si elevarono tanto in alto come il rude siniscalco Mark
de Anweiler, il quale morì reggente di Sicilia: egli era stato affrancato solo
nel 1197, quando il suo signore gli conferì l'investitura del ducato di Ravenna
e della Marca di Ancona.
Dall'episodio della distruzione di Villamagna il prestigio della famiglia
comitale ne uscì irrimediabilmente scosso e fu un duro colpo tanto che nei
decenni successivi riuscì solo a sopravvivere alla passata fierezza.
All'infausto epilogo fu quasi certa la presenza interessata di Gualterio, che
nello stesso anno incastellò Alberico di Giuseppe, uno dei nobili fuggiaschi da
Villamagna. Alla stesura dell'atto erano presenti Giovanni Ugolini e Rainuzio
Paganelli, consules: è la prima volta che viene citata questa magistratura per
Urbisaglia, indicazione evidente che il paese si era ormai dotato di una forma
allargata di controllo popolare. Inoltre, da questa circostanza si arguisce che,
nella lotta politica, i due castri erano schierati su opposti fronti: Villamagna
e gli Offoni aderivano al papato (guelfi), mentre gli Abbracciamonte aderivano
al partito dell'imperatore (ghibellini). Si disse ghibellino il partito dei
sostenitori della casa di Hohenstaufen, duchi di Svevia e signori del castello
di Wibeling in Franconia, ostili alla supremazia papale, in contrapposizione al
partito dei guelfi, guidato dai duchi di Baviera, eredi di Guelfo (1070-1101).
Al tempo della lotta fra il Barbarossa, appartenente appunto alla casa sveva, ed
il papato i due schieramenti assunsero il significato antipapale o antimperiale.
Non c'erano dietro la contrapposizione tra guelfi e ghibellini motivazioni di
carattere sociale, di classe diremmo oggi. C'erano piuttosto orientamenti
politici, tradizioni cittadine e solidarietà (e odi) familiari createsi
anticamente nel corso dei secoli, e destinate a depositarsi nella memoria delle
parti politiche e delle famiglie. Meglio se nobili e capaci di conservare una
memoria storica. Fu una contrapposizione che espresse il particolarismo del
tempo, la vivace, insopprimibile conflittualità dentro e fuori le città in
competizione tra loro per la conquista di maggiori spazi politici, militari ed
economici. Insomma espresse una conflittualità in qualche modo inevitabile in
mancanza di ordinamenti sovraccitadini di una qualche consistenza, e in presenza
di molteplici centri di iniziativa politica e culturale capaci di proiezioni a
vastissimo raggio.
I signori di Urbisaglia
Gualterio di Abbracciamonte aveva ereditato una situazione sfavorevole alla sua
signoria: il padre aveva sottoscritto una promessa di incastellamento a
Tolentino e accordi con l'abbazia di Fiastra per il possesso della contrada di
Brancorsina. Per risollevare le sorti del suo dominio Gualterio, insieme alla
madre, aveva iniziato, nel 1196, una lite con l'abate di Fiastra per il possesso
della stessa contrada e per contestare il diritto dei monaci a cavare le pietre
e i mattoni nel territorio della città romana, posta sotto la sua
giurisdizione, e utilizzati dai monaci per l'edificazione della chiesa e del
monastero. La lite fu rapidamente risolta alla presenza del notaio Berardo con
la mediazione del vescovo di Camerino Atto e dei notabili e signori più
importanti dei castri limitrofi, tra i quali lo stesso Matteo di Villamagna.
Inoltre, Gualterio riuscì ad ottenere un contratto di enfiteusi a terza
generazione sopra i due terzi di Brancorsina, pur perdendo le somme in denaro,
che il padre aveva depositato presso la stessa abbazia. Nell'incrementare la sua
influenza personale, Gualterio di Abbracciamonte raggiunse un altro positivo e
importante risultato. Riuscì ad ottenere in enfiteusi le proprietà del
monastero di santa Maria di Tolentino, dal preposto Gualfredo, al prezzo di 100
bisanti d'oro. Il territorio, riportato nel documento, corrisponde quasi
perfettamente ai confini attuali del comune di Urbisaglia, includendovi anche la
contrada di Brancorsina fino al Chienti e altre contrade verso Pollenza e
Petriolo, che il comune perse successivamente in favore di Tolentino.
Poiché le proprietà ecclesiastiche non potevano essere vendute, essendo
patrimonio divino, venivano concesse in enfiteusi, che era un contratto
d'affitto di lunga durata, o ceduto fino a terza generazione, ottenendo in
cambio un modico canone annuo. Di fatto, fu un tipico strumento con cui si
dilapidarono e espropriarono gli enormi patrimoni fondiari delle chiese dei
monasteri; poiché non sempre era possibile recuperarli in assenza di una
corretta amministrazione catastale. Così, il semplice possesso si trasformava
sovente in cruda proprietà.
Inoltre, la distruzione di Villamagna fu un duro colpo per i suoi signori, tanto
che Matteo e Forte, per non assoggettarsi all'indesiderato dominio di Gualterio,
nel marzo 1199 sottoscrissero una promessa di incastellamento a Tolentino, con i
soliti patti di perseguire la pace o la guerra (escluso con Sanginesio) secondo
i loro ordini, e ricevendo in cambio una casa con orto a Tolentino insieme al
permesso di poter possedere un molino. Con questo atto comparve nella valle del
Fiastra un nuovo pretendente alla supremazia nel territorio della valle del
Fiastra: Tolentino, che non aveva possibilità di espansione da altri lati a
causa della presenza di forti e potenti comuni confinanti a nord. Villamagna
oramai si avviava a scomparire come entità amministrativa autonoma, tanto che
Forte nell'ottobre del 1200 cedette alla sorella Siginetta e al marito Giorgio i
diritti patrimoniali su diversi mansi e vassalli. E, a novembre, forse deluso di
essere un qualunque semplice cittadino di Tolentino, promise di nuovo a
Gualterio di incastellarsi in Urbisaglia, di non ricostruire la distrutta
Villamagna e di far prosperare la sua nuova patria, ricevendone in cambio la
posta per un molino presso l'anfiteatro (Parlasium), una vigna in contrada
Cerreto e la metà di un campo in contrada Fonticella. Così Forte, in questi
anni primus inter pares degli Offoni fu costretto a districarsi tra alterne
vicende, che gli imposero di contrarre debiti, vendere diverse proprietà e fare
concessioni sempre maggiori al potente di turno, particolarmente al monastero di
Chiaravalle di Fiastra.
Nuove lotte nuove guerre tra
papato e impero
Con l'arrivo dell'esercito pontificio nella Marca, dopo la fuga a Palermo di
Mark di Anweiler, i Comuni, divisi nello schierarsi tra l'imperatore e il papa,
continuarono a perseguire una maggiore autonomia, rifiutandosi di sottoporre le
loro deliberazioni all'approvazione del Legato della Marca. Una guerra tra
Ancona, e i suoi alleati contro, Osimo, Jesi, Fermo e Fano riaccese le rivalità
tra i comuni, che non avevano trovato un definitivo accordo nella pace di
Polverigi del 16 gennaio 1202, per la mancata adesione da parte di Ascoli,
Tolentino, Sanginesio, Camerino, Fabriano, Matelica, Sanseverino, Macerata,
Montolmo e Cingoli. Il papa Innocenzo III (1160-1216), constatando la situazione
disperata nella Marca affidò il suo governo al marchese Azzo VI d'Este, nella
speranza che una sua occupazione armata avrebbe garantito il dominio alla
Chiesa. Ma i disordini e le vicende nella Marca non si avviarono nel senso
auspicato, così ogni comune continuava a perseguire i propri interessi
particolari. Infatti, Azzo VI abbandonò queste contrade per seguire
l'imperatore in Lombardia e a seguito della sua morte nel 1212, l'imperatore
Ottone IV (1174 c.a - 1218) nominò marchese della Marca Pietro da Celano, in
contrasto della investitura papale di Aldobrandino d'Este, al quale si era però
già contrapposta una lega di Comuni. L'opposizione fiera e tenace agli Estensi
alimentò un vivo risentimento contro la Chiesa, suscitando ovunque il
diffondersi di movimenti pauperistici, che si rifacevano soprattutto agli
insegnamenti di san Francesco e degli ordini mendicanti da lui originati.
Compare un nuovo contendente
nella valle: Tolentino
La presenza ostile di Tolentino si fece avvertire pesantemente nella valle, dopo
che diversi centri demici erano stati incorporati nella sua giurisdizione e che
numerosi nobili del contado avevano aderito alla sua comunità. Ma anche
Sanginesio si adoperava incessantemente per allargare la sua influenza lungo la
valle del Fiastra. Tolentino, inoltre, nel 1201 aveva stretto dei patti di
alleanza con Montecchio e Camerino, che includevano favorevoli accordi anche con
Montemilone. In questi centri urbani della provincia, contrariamente che ad
Urbisaglia, si andava rapidamente affermando una nuova dinamica collettività
cittadina, che inglobava la suo interno i nobili del contado; anche se prevaleva
la componente di origine popolare organizzata in differenti corporazioni
artigianali a gestire l'amministrazione della vita pubblica del comune.
Continuava la lenta decadenza degli Offoni, nel novembre del 1202 Siginetta e
suo fratello Forte diedero in pegno a Giorgio, marito di lei, per un prestito di
36 lire lucchesi, un campo sito in fondo Piano e due commendazioni di uomini,
stabilendo inoltre alcune condizioni accessorie nel caso della morte improvvisa
di Siginetta. Contemporaneamente i due coniugi insieme rinunziarono in favore di
Forte ad ogni diritto sul manso paterno nella corte di Villamagna e sulle terre,
vigne, selve, uomini e beni situati nei castelli di Sanginesio e Cessapalombo.
Nel maggio del 1206, Forte di Offone, trattò la vendita di un manso nella corte
di Cessapalombo, nei fondi di Casigliano e Barammano per un prezzo di 4 lire e 5
soldi lucchesi.
L'abbazia di Chiaravalle di
Fiastra continua la sua espansione economica e religiosa
L'espansione territoriale dell'abbazia di Fiastra non fu priva di conflitti
giudiziari con i nobili del luogo o con i comuni limitrofi. Nel maggio 1206 si
concluse una lite giudiziaria tra l'abbazia di Fiastra, rappresentata dall'abate
Trasmondo, e Alberico di Giosué insieme al nipote Giuseppe. Il lodo arbitrale,
sentenziato dal giudice eletto dai contendenti, Berardo Prontoguerra nella
chiesa di san Michele in Ripe Sanginesio, stabiliva che i due nobili
rinunciassero ad ogni diritto sulle possessioni contese, restituissero
rilasciando la quietanza per le 19 lire lucchesi reclamate dall'abbazia; e che
rientrassero in possesso degli strumenti agricoli utilizzati nel lavoro dei
campi. Gli inadempienti avrebbero dovuto pagare una penale di 100 lire lucchesi,
metà destinata al giudice, e l'altra metà alla parte rispettosa della
sentenza.
Non fu l'unica lite che riguardava Fiastra; lo stesso papa Innocenzo III dovette
intervenire per difendere i diritti accampati dall'abbazia sopra la chiesa di
santa Maria in Selva contro il vescovo di Osimo
La vita scorreva tranquilla per altri proprietari: nel novembre del 1207
Carnevale dette in pegno a Rinaldo, Gualtiero e Venanzio, figli di Giovanni, una
terra nel fondo di san Tossano, davanti al castello di Villamagna, per la dote
di Buonafemmina, loro sorella, promessa a Nicola, figlio dello stesso Carnevale.
Mentre il succitato Alberico di Giosué si costituì come fideiussore di Forte
di Offone nei confronti di Oddone, a garanzia della composizione avvenuta tra il
monastero e lo stesso Forte, forse per rientrare in possesso dei beni depositati
negli anni precedenti.
Intanto compare nelle carte anche Offreduccio, figlio di Matteo di Villamagna,
che nell'ottobre del 1208, permise a Attone, sottopriore di Fiastra, di poter
condurre l'acqua del Fiastra ad un molino e di poter scavare un vallato nelle
sue terre, ricevendone in cambio 4 lire lucchesi e una parte di una rota del
fiume. All'atto redatto a Mogliano presenziò Mainardo di Trasmondo Nobilini,
che era uno degli uomini di Forte di Villamagna, in veste di tutore di
Offreduccio, poiché questi aveva meno di 25 anni.
Nel resoconto di alcune testimonianze del 1208 su una lite vertente tra
l'abbazia e Forte con Matteo su un vallato presso il Fiastra, il possesso di un
orto sopra la casa di Stallone e della terra di Giovanni Nigri, successa anni
prima, si evidenziano alcune informazioni importanti. Il teste don Alberto riferì
di aver visto alcuni atti notarili appartenenti ai monaci, in cui risultava che
l'abbazia era stata fondata sulla terra de li Paterniani, chiamandoli fideles
dominorum de Guillamaina. Un altro testimone, Carnevale, sotto giuramento affermò
che dopo la morte di Matteo di Villamagna, furono restituiti diversi panni di
seta e lino, tovaglie, cinte di seta e collane d'argento, che erano stati
depositati in abbazia. Il teste Urbisaglia aggiunse che vide Matteo e Forte
ricevere in diverse occasioni cavalli, buoi e altri vestiti. Era anche presente
quando l'abate Martino rimise ogni colletta e perdonò ogni maleficium, che
Forte aveva fatto ai monaci, sotto la pena di 50 lire se non avesse rispettato i
patti. Inoltre Forte ricevette un paio di buoi, compreso un vomere, un giogo e
un pungolo per gli animali. Ma la notizia più interessante la fornisce un certo
Todino. Questi affermò che era presente nella calzoleria del monastero quando
l'abate Trasmondo e il priore Rainaldo promisero a Forte di porgergli aiuto nel
caso de placito quod abebat cum filiis Rainaldi Trasmundi, nell'anno precedente.
Nell'alto Medioevo si chiamava placito l'udienza giudiziaria che il re, ma di
fatto sul piano locale il conte o altro rappresentante regio, teneva
periodicamente per discutere e giudicare le cause che gli erano presentate.
L'amministrazione della giustizia era una delle responsabilità principali del
potere pubblico e tutti gli uomini liberi erano chiamati a parteciparvi; fra
loro erano scelti i boni homines che assistevano il conte nella formulazione
della sentenza. Con il tempo il placito si trasformò da prerogativa del potere
pubblico, condotta con il concorso della popolazione, a manifestazione di un
potere ormai privatizzato e dinastizzato a profitto dei signori locali; ciascun
signore aveva la possibilità di giudicare i suoi dipendenti e dunque di tenere
il placito. Continuerà a chiamarsi servizio di placito l'obbligo per i vassalli
di assistere il signore nell'esercizio della giurisdizione. Non sappiamo come
sia andata a finire la questione, poiché il documento riporta solo le
testimonianze di parte di Forte.
Nell'anno successivo, ancora Offreduccio di Matteo negoziò una vendita di terra
con un pezzo di oliveto con Pietro e Giovanni di Attone al prezzo di 40 soldi
lucchesi. E ancora i fratelli Giacomo e Offreduccio di Matteo, per i servizi
ricevuti e che sperano di fruire ancora, donarono a Benedetto di Attone un
appezzamento nella contrada di Colle Arsiccio, nel fondo Moriole. Le loro
vendite continuarono incessantemente negli anni successivi, svendendo il
patrimonio accumulato dagli ascendenti.
Colmurano e Montenereto
Frattanto a Colmurano, Bernardo di Abbate e il figlio Venanzio promettono ad
Offone di Colmurano di abitare nel castello riconoscendone la signoria,
ricevendone in cambio la restituzione di 11 soldi lucchesi e la terra, che
possedevano nel luogo detto lu Staffulu. Anche a Montenereto si giunge ad una
pacificazione che riguarda tutti i signori del luogo: i consoli Gilberto di
Montenereto e Ubaldo di Arnaldo giudicarono in merito alla controversia che
opponeva da un lato Offreduccio, Gualtiero e Aliotto e le loro sorelle contro
Attone, Alberto e Nellolante, condannando quest'ultimi al pagamento di 25 lire
lucchesi; ma li assolve dall'obbligo di restituire una terra in contrada dello
Stirpario e di soddisfare tutte le richieste contenute nel libello d'accusa.
Forte di Offone, il 23 maggio 1211, ricevette dalla suocera Sofia, vedova di
Balzano, insieme alla moglie Claraclasse uno spiazzo recintato da un muro, sito
sopra il fossato del castello di Tolentino e una parte di un molino vicino al
vallato vecchio nella curia sempre di Tolentino.
Il giorno 5 dicembre dello stesso anno, Magalotto giudice del comitato di
Camerino emise la sentenza nella lite vertente tra Grimaldesco e i suoi figli
contro Giberto e Oradino circa il possesso del castello di Montenereto; il
risarcimento di alcune spese sostenute per le derrate alimentari in sostegno del
castro (pane, frutta, frumento, miglio, orzo, fava e vino); e la proprietà dei
loro uomini nelle corti di Urbisaglia e Tolentino. La sentenza cercò di
metterli unanimemente d'accordo, stabilendo che nessuno aveva il diritto di
fortificare il castro o costruire una corte senza il consenso degli altri. La
sentenza venne emessa a Tolentino alla presenza del podestà Tebaldo, del
giudice Berardo di Prontoguerra delle Ripe e di altri notabili locali.
Ascesa degli Abbracciamonte
di Orbesallia
Anche Gualterio di Abbracciamonte, per mantenere una precaria autonomia, si
barcamenò tra i diversi contendenti e fu obbligato, dai rapporti di forza
presenti in campo, a patteggiare di nuovo con Tolentino una effimera promessa di
incastellamento e di fedeltà, il 31 agosto del 1213. Oltre a sottomettere
Urbisaglia, promise di promuovere la guerra o la pace secondo le direttive dei
consoli o del podestà con l'esclusione degli abitanti di Montemilone, e di
liberare dal vassallaggio i suoi vassalli di Brancorsina. In compenso ricevette
4 modioli di vigna in contrada Porta del Monastero, una casa e una posta per un
molino o per una gualcheria lungo l'Entogge o il Fiastra, oltre alla completa
esenzione di incastellare gli abitanti rimasti nella contrada di Villamagna dopo
la sua distruzione, con l'esclusione naturalmente di Matteo e di Forte.
Nel 1214 Forte di Offone, con numerosi atti notarili redattati tra luglio a
settembre, donò all'abbazia di Fiastra la sua parte del castello di Villamagna
insieme ad altri beni mobili e immobili; inoltre offrì il figlio Gentile come
oblato nel monastero, dispose che la figlia Giovanna si sposasse secondo le
intenzioni dell'abate e addirittura mise sé stesso nelle mani dello stesso
abate di Fiastra. Nel luglio, Palmario di Ugolino e Panico, delegati
all'esecuzione delle sue decisioni, immettono il monaco Scapolo e il converso
Oriolo nel possesso di numerosi beni distribuiti tra Villamagna, Valle Curiale,
Cessapalombo e Sanginesio. La donazione, che apparentemente può sembrare una
resa completa di Forte nei confronti dell'abbazia di Chiaravalle, in realtà
potrebbe essere interpretata come l'estremo tentativo di non perdere il
controllo delle terre cedute ed evitare la deprecata sottomissione ad domini
locali, come Gualterio di Abbracciamonte, con il quale tuttavia sia Forte che
Giacomo di Matteo continueranno a mantenere rapporti, fino ad essere
riconfermati, nel 1220, come castellani di Urbisaglia, ricevendone in cambio una
solenne promessa di protezione. Un'altra ricostruzione ipotetica potrebbe essere
che Forte sia caduto in una prostrazione fisica dettata dal una qualsiasi
malattia, visto che ogni volta che compare nella documentazione successiva lo
ritroviamo sempre nella sua casa dentro il castello di Urbisaglia e alla fine
della sua vita stilerà un testamento lasciando come eredi altri figli, che non
si ricollegano assolutamente a quelli citati nel documento precedente. Negli
anni precedenti gli Offoni tutti avevano continuato a mantenere rapporti
deferenti sia con il monastero di Chiaravalle di Fiastra, che con Tolentino.
Continua l'incertezza
politica nella Marca
Mentre l'abbazia di Fiastra continuava ad estendere il suo territorio, si scontrò
duramente con gli interessi contrapposti dei comuni limitrofi ed entrò in lite
con alcuni uomini di Montemilone, suscitando l'intervento protettivo del
pontefice Innocenzo III. La causa si concluse nel 1221 con la condanna di
Montemilone da parte di Nicola, giudice per conto di Azzo VII d'Este, marchese
d'Ancona e rettore pontificio, e riconfermata da Arnulto, giudice di Pandolfo,
nuovo legato pontificio nel 1223.
Intanto si assisteva alla contemporanea presenza nella Marca di Azzo d'Este e
del patriarca di Aquileia, delegato imperiale. Nel 1222 Gunzelino von Wolfenbüttel,
nuovo vicario imperiale, e Bertoldo, fratello di Rinaldo duca di Spoleto,
penetrarono con un esercito nella Marca effettuandovi feroci scorrerie; mentre
Azzo VII d'Este non era riuscito assolutamente né a ricomporre solide tregue
tra i litigiosi comuni, né a contrapporsi validamente all'esercito del vicario
imperiale. Infatti, un suo intervento in favore di Macerata provocò la dura
opposizione del vescovo di Fermo e di tutti i comuni del suo contado.
Continua la politica
d'espansione di Tolentino
Frattanto, Forte e Jacopo, figlio del quondam Matteo, il 4 ottobre del 1225
riconfermarono a Tolentino i patti precedentemente sottoscritti, riservandosi i
servizi di vassallaggio dei loro uomini in Villamagna. Inoltre lo stesso Jacobo,
ormai avanti negli anni e senza prole, nel testamento del 1227 riconfermò le
donazioni fatte dai suoi antenati all'abbazia di Fiastra, salvaguardando i
diritti dotali della moglie e quelli promessi a Tolentino. Così, buona parte
dei possedimenti degli Offoni sembravano in apparenza ormai confluiti
definitivamente nel patrimonio del monastero di Fiastra.
Intanto procedeva con metodicità la lunga serie di incastellamenti perseguiti
da Tolentino, che coinvolsero numerosi borghi rurali come Montenereto (1196),
Agliano (1198), Villa Maina (1199), Colmurano (1204), Pitino (1205), Pieca
(1210-1232), Urbisaglia (1213), Virgigno (1227) e singoli nobili rurali. Erano
collegati non solo a mire di espansione territoriale, ma volti soprattutto ad
incrementare la popolazione, ad aumentare l'influenza economica negli scambi
commerciali nel mercato locale e a rafforzare la sicurezza militare e difensiva
del castro.
La cessione di Pieca a Tolentino determinò una lunga serie di dissidi nella
provincia tra Tolentino e Sanginesio, che si sentiva minacciata nel suo contado,
anche perché successivamente a Tolentino venne ceduto e confermato Virgigno, un
castro situato nelle immediate vicinanze di Sanginesio. Inoltre, era esplosa
un'annosa questione per il possesso di Pitino tra Sanseverino, Tolentino e
Camerino. Così si formò una stretta alleanza di interessi materiali tra
Tolentino, Camerino e Montecchio, ma Sanseverino occupò con la forza la
fortificazione, posta in posizione strategica per il controllo dei traffici
commerciali lungo la valle del Potenza.
Frattanto, il 10 febbraio del 1228, Gualterio raggiunse un illusorio compromesso
con Sanginesio, dopo che questi gli aveva distrutto il castro di Brugiano,
presso Pian di Pieca, dove possedeva estesi appezzamenti. Promise di
incastellarsi, insieme agli abitanti di Brugiano, in cambio della casa
appartenuta al preposto di Pieca, tre modioli di terra entro il paese e di una
vigna vicina alla sua. Non fu l'unico vantaggio acquisito da Sanginesio contro
Tolentino. Infatti riuscì nel 1229 a farsi confermare da Rinaldo, duca di
Spoleto, il possesso di Virgigno, di Pieca, di Isola e di ogni altra possessione
tolta a Tolentino. Questi non attraversava un momento favorevole: i suoi
possessi in Brancorsina, appartenenti al monastero di san Catervo, erano
continuamente contesi ed acquisiti dal vescovo di Camerino, tanto che si
pervenne a reciproche scomuniche. Così, fu promulgato l'interdetto ai
Tolentinati che si recavano a pregare e ricevere i sacramenti nella chiesa di
san Catervo. La scomunica venne tolta solo nel 1234 per interessamento di
Ottone, rettore della Marca e cardinale di san Nicola del Carcere Tertulliano,
dal pievano della chiesa di san Vito in Recanati.
Ancora alternanza tra lo
strepito delle armi e la tregua di pace nella Marca
Mentre Federico II era in Oriente per la crociata, la Marca fu affidata a
Rainaldo di Urslingen, che giungendovi occupò Montolmo e Macerata. La notizia
dell'arrivo di un esercito al comando di Giovanni Brienne e del cardinale
Giovanni Colonna, consigliarono ad Azzo VII di abbandonare la partita e di
ritirarsi in Abruzzo, dove riunendosi con l'esercito di Federico II sconfisse i
pontifici. E la Marca, abbandonata dagli imperiali, rimase sotto
l'amministrazione papale del legato cardinale diacono Enrico da Parignano, e
retta dal rettore Rainald. Con il trattato di san Germano, sottoscritto il 23
luglio 1230, Federico II riconobbe la Marca come patrimonio inalienabile della
Chiesa e vi venne subito nominato, come rettore, il vescovo francese Milo
Beauvais.
Nel decennio successivo la Marca godette di un relativo periodo di tranquillità,
sia nella campagna che nei borghi, tanto che venne favorito un nuovo afflato
religioso, mentre Montolmo approfittò della situazione per incastellare i
Signori di Petriolo con tutti gli abitanti.
Nel 1238 Filippo, vescovo di Camerino, fu chiamato a dirimere una controversia
sollevata da Gualterio contro Jacopo di Matteo e il monaco Manente, procuratore
per l'abbazia di Fiastra, per il predominio territoriale su Villamagna. Il lodo
finale stabilì che i monaci avessero in integro la terza parte della contrada,
mentre a Gualterio fu riservata la restante parte, ma solo in enfiteusi.
Il conflitto tra il papato e l'impero, che era ripreso dopo la battaglia di
Cortenuova del 27 novembre 1237, raggiunse livelli assai critici. Federico II,
nel luglio del 1240, pose Ascoli Piceno sotto assedio e la saccheggiò. Nel
novembre dello stesso anno Enzo (1224 c.a - 1272), figlio di Federico, continuò
l'invasione della Marca e del ducato di Spoleto. Favorito dagli esuli maceratesi
occupò Macerata e vi pose la sua residenza, mentre il vicario imperiale,
Giacomo Morra, cercava di favorire tutti i comuni che passavano dalla sua parte.
Più volte il cardinale Colonna cercò di recuperare la Marca al papato, ma
venne contrastato e respinto prima presso la costa maceratese, poi traslocò con
armi e bagagli nella opposta fazione imperiale.
Nel novembre del 1241, per i danni e le angherie subite Accurso, priore di
Chiaravalle, denunciò al tribunale di Roberto di Castiglione, vicario
imperiale, Pietro, figlio di Gualterio Abbracciamonte, che spalleggiato dai suoi
seguaci aveva cercato di impossessarsi di un terreno situato lungo la strada del
Massaccio. Questa è l'ultima testimonianza indiretta che Gualterio fosse ancora
in vita. Gualterio è stato importante nella storia di Urbisaglia, avendola
governata per più di cinquant'anni superando numerose traversie. Doveva avere
una buona cultura giuridica e eminenti capacità diplomatiche se riuscì a
conservare Urbisaglia libera ed indipendente e se aveva ricoperto la carica di
podestà a Montecchio, come risulta dalla testimonianza giurata di un tal
Saverio di Tebaldo in un processo svoltosi a Montecchio nel 1236.
Verso la fine del 1247, Marcellino, vescovo di Arezzo e legato pontificio, subì
una completa disfatta nelle campagne tra Osimo e Civitanova da parte del vicario
imperiale, Roberto di Castiglione: si ebbero più di 4 mila morti nell'esercito
papale e lo stesso Marcellino, preso prigioniero nella battaglia, venne
barbaramente trucidato.
Il nuovo legato, Rainerio, cardinale di santa Maria in Cosmedin, pose la sua
sede in Tolentino nel gennaio del 1248. La sua presenza favorì non poco
Tolentino che non tergiversò a lungo per perseguire e realizzare i suoi fini più
reconditi. Il 26 marzo 1248, insieme a Camerino, Matelica, Sanginesio,
Montemilone, Montecchio e Cingoli strinse un'alleanza solidale contro la parte
imperiale (Osimo, Sanseverino, Fidesmido da Mogliano e i Signori di Falerone)
per recuperare l'importante fortificazione di Pitino e per mantenere lo statu
quo a Colbuccaro e Urbisaglia, con la riserva dei rispettivi diritti avanzati da
Montemilone e da Tolentino. Il 20 agosto 1250 a Cingoli, gli imperiali
costrinsero il Legato della Marca a darsi ad una precipitosa fuga; nel dicembre,
Innocenzo IV (1190 c.a - 1254) con undici atti consecutivi concesse vari
privilegi a Tolentino per mantenerlo saldamente fedele alla Chiesa, mentre la
Marca era in pericoloso fermento contro di lui. Nella lettera del 20 dicembre,
lo invitò a confiscare tutti i beni dei Signori di Urbisaglia, Pietro e Rosso e
del loro nipote. Ma qualcosa si ruppe nella stretta alleanza tra il papato e
Tolentino; infatti con una lettera del 23 dicembre Innocenzo IV improvvisamente
revocò tutte le concessioni precedentemente elargite a Tolentino. Ma Tolentino
troppo avanti nell'esecuzione del suo piano egemonico, dopo aver preparato il
terreno con l'azione diplomatica e dando sfoggio di una violenza inusitata,
attaccò di sorpresa Urbisaglia e Colmurano, approfittando della favorevole
concomitanza per l'improvvisa morte dell'imperatore Federico II.
Nella cruda cronaca del processo, risulta che vi furono sanguinosi scontri al
suono incitante delle clarine e con gli stendardi al vento, si uccisero gli
uomini e violarono le donne, furono trafugati gli animali domestici, incisi gli
alberi e incendiati i raccolti, le case e le fortificazioni, lasciando dietro di
sé solo una scia di lacrime e sangue.
Terminò così una fase della storia di Urbisaglia, di poco successiva alla
scomparsa di Gualterio di Abbracciamonte, significativo rappresentante di una
casta di Signori rurali della Marca. Ma i patti, che firmarono i suoi
successori, evidenziano la disparità delle forze poste a confronto: da un lato
un piccolo borgo retto da Signori con gli occhi rivolti al passato e dall'altro
i forti comuni, che si organizzarono secondo nuove regole più democratiche e
forme di associazionismo innovative per la vita sociale di quei tempi.
Rimasero i figli, Pietro e Rosso, con il nipote Gualteruccio, figlio del
primogenito Guarnerio, a contrastare la sovrastante potenza politica e militare
di Tolentino.
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Dalla
prima distruzione di Urbisaglia alla definitiva vendita a Tolentino
1251 - 1303
Urbisaglia distrutta cerca
di rinascere
Iniziò in questo modo così violento un periodo confuso, caratterizzato da una
significativa instabilità politica, nel quale prevaleva la legge del più
forte. Il 10 gennaio, con le rovine di Urbisaglia ancora fumanti, un nutrito
gruppo di impauriti Urbisagliesi fece atto di sottomissione innanzi alla chiesa
di san Giorgio; il gesto venne ripetuto in pompa magna, il 6 giugno, nella
chiesa di san Giacomo a Tolentino. Inoltre, furono stilati una lunga serie di
atti notarili, volti a legalizzare de facto il possesso di Urbisaglia. Il 24
gennaio, il consiglio generale di Tolentino delegò il sindaco Giovanni
Varcalacqua all'acquisto da Rosso della sua quota del castro. Nello stesso
giorno fu stipulata l'atto vendita notarile nella chiesa di san Catervo. Si
costrinse così Rosso di Gualterio a cedere la terza parte della proprietà e
giurisdizione di Urbisaglia, che condivideva con il fratello Pietro e il nipote
Gualteruccio. Con molta probabilità, Rosso era stato preso prigioniero nella
sanguinosa sortita e rinchiuso in carcere per costringerlo a cedere i suoi
diritti, come lasciano intuire i documenti. Oltre le solite promesse di
incastellamento, i contraenti sottoscrivono la remissionem de omnibus maleficis,
offensis et culpis et damnis datis. Rosso promise di non adoperarsi nella
ricostruzione del castro; di lasciare il paese sempre disabitato e distrutto;
ottiene inoltre 3.000 lire ravennati e anconitane, l'esenzione da tasse e la
conservazione dei diritti di vassallaggio sui suoi uomini, il diritto edificare
alcuni molini lungo il Fiastra e la revisione degli accordi, se Pietro e
Gualteruccio avessero ottenuto condizioni più vantaggiose. Il primo marzo,
Rosso fu costretto di nuovo a confermare le cessioni e ratificare in forma ancor
più solenne i patti in precedenza stipulati.
Per incassare i risultati ottenuti, Tolentino strinse una nuova alleanza con
Montecchio e Camerino, con la quale i contraenti si garantivano reciprocamente
l'avvenuta spartizione per sfere di influenza: Camerino su Pitino, Montecchio su
Appignano e Tolentino su Carpignano, Colmurano e Urbisaglia. Anche Grimaldo di
Viviano fu piegato a vendere i due quinti di Colmurano, il 28 luglio, al prezzo
di 7.000 lire ravennati e anconitane.
In questo processo di dominio di Tolentino, non tutto filò liscio come sperato,
infatti Innocenzo IV, con una bolla del 18 agosto del 1251, intimò a Pietro,
cardinale di san Giorgio al Velabro e rettore della Marca, di operarsi per la
ricostruzione immediata di Urbisaglia in favore di Pietro e Rosso di Gualterio,
e di Colmurano per Rinaldo, Jacopone, Uguccione, Berardo e Gualterio; sebbene
Rinaldo di Andrea fu spinto a vendere, sia per sé che come procuratore del
figlio Jacopone, la quarta parte di Colmurano al sindaco di Tolentino, Accatto
di Giordano, per la somma di 500 lire, nel gennaio 1252.
Nonostante le ripetute petizioni presentate da parte di Tolentino e le numerose
raccomandazioni papali, inoltrate al Legato della Marca di non molestare troppo
la fedele Tolentino, il Papa emise infine una sentenza favorevole ai Signori di
Urbisaglia, che rientrarono così nel pieno possesso del loro dominio,
continuando però ad essere sballottati tra Tolentino, Sanginesio e Camerino.
Probabilmente a causa della esplosiva situazione della Marca, divisa sempre tra
impero e papato, la questione di Urbisaglia passò in secondo piano e si tentò
di smorzarne i toni troppo polemici: infatti il papa invitò più volte il
Rettore ad agire con equilibrio e sagacia, nella ricerca di eque soluzioni.
Nel frattempo, dal testamento di Ferro di Benedetto, abitante una volta a
Villamagna ed allora residente a Colmurano, risulta documentata la presenza dei
frati minori francescani in silva Urbisalie; probabilmente ci si riferisce alla
selva in contrada di Monte Loreto, posta ai confini con Colmurano, dove
sopravvivono ancora oggi le strutture di un monastero. Forse l'atto venne
stipulato sotto la spinta dell'emozione per la vendita forzata di Colmurano; e
non è casuale che vi fossero incluse numerose regalie all'abbazia di
Chiaravalle di Fiastra, probabilmente considerato un baluardo equilibrato
all'espansione violenta di Tolentino.
Ancora, il 21 gennaio 1253, il papa Innocenzo IV riconfermò al giudice
Mercatante la sentenza del Rettore sulla doverosa ricostruzione di Urbisaglia in
favore di Pietro, Rosso e Gualteruccio e lo invitò a proseguire nella
trattativa. In conformità al mandato papale, il rettore della Marca, Gualterio,
dopo aver convocato le parti con i loro procuratori legali e ascoltato le loro
testimonianze, invitò il sindaco di Tolentino, Giovanni Varcalacque e Benvenuto
Cantalamessa, in rappresentanza dei Signori di Urbisaglia, a trovare una
pacifica soluzione per ricostruire il paese, lontano dallo strepito di un annoso
processo pubblico. La ricostruzione sarebbe stata realizzata per due terzi a
carico del pontefice (quelle di Pietro e Rosso) e per un terzo a spese di
Gualteruccio. Per chiarire ogni dubbio, il Papa da Assisi, il lunedì 22 giugno
1253, rompendo ogni indugio, ingiunse al Rettore della Marca, Gualterio vescovo
di Luni, a convocare i contendenti per comunicare le definitive scelte. La
sentenza fu riconfermata da Giacomo, episcopum Portuensis, dopo che Tolentino di
era appellata di nuovo alla sede Apostolica. Nonostante le chiari sentenze
favorevoli ai Signori di Urbisaglia, il Papa nell'anno successivo, comunicò al
Rettore della Marca di soprassedere alla multa di 500 lire per sedare gli animi
dei Tolentinati, loro comminata nella condanna per l'invasione e per gli stupri
perpetrati ai danni di alcune giovani urbisagliesi commessi da fanti e cavalieri
nel proditorio e violento assalto militare.
Frattanto, nel 1254, Bernardo di Colmurano si convinse a vendere la sua quota
del castro per 150 libbre, per una casa con casareno e una vigna, in Tolentino.
Mentre, nell'anno successivo, il nuovo papa, Alessandro IV (?- 1261), tornò a
sollecitare il rettore Rolando nel perseverare a concludere il processo,
intentato contro Pietro e Rosso di Gualterio dall'abbazia di Fiastra, vertente
sul possesso definitivo del manso affittato ad Alberico di Compagnone, in
contrada di Brancorsina. Il rettore scrisse a Rolando, giudice e canonico di
Anagni, per informarsi sull'iter della causa e per sollecitarlo a condurla in
porto nel più breve lasso di tempo.
La decisa ricostruzione di Urbisaglia si trascinò ancora per diversi anni,
tanto che il 15 ottobre 1256 il consiglio generale di Tolentino nominò a
sindaco Filippo di Petriolo per resistere ancora nella causa contro Pietro,
Rosso e Gualteruccio. Dal documento si scopre che alla distruzione di Urbisaglia
parteciparono numerosi cittadini di Colmurano e di Montenereto, insieme ad
alcuni fuoriusciti di Urbisaglia, rifugiati a Tolentino. Il sindaco si accordò
con il procuratore avversario nel delegare al preposto di san Catervo, don
Jacobo Moricotti, per dirimere la questione con un arbitrato, al di fuori del
tribunale papale. La sentenza, emessa il 7 novembre dello stesso anno, stabilì:
che si rispettassero i patti sottoscritti da Gualterio; che si rimettessero le
reciproche offese fatte e subite; che si concedesse per due volte la carica di
podestà di Tolentino, con un salario di 1.000 lire, ai signori di Urbisaglia,
Rosso e Pietro, e di 50 lire per i loro ufficiali; che Urbisaglia non potesse
incastellare gli abitanti di Colmurano, Montenereto e Tolentino; che gli
Urbisagliesi già incastellati a Tolentino, se lo desideravano, potessero
ritornare liberamente al paese; che i Signori di Urbisaglia ottenessero 150 lire
a risarcimento delle spese di viaggi effettuati e per il soggiorno durante la
causa in Assisi; e soprattutto si annullassero tutti i documenti notarili
riguardanti le precedenti vendite. I contendenti accettarono la sentenza e si
scambiarono le rispettive promesse per la sua esecuzione alla presenza di
numerosi notabili della provincia.
Infatti, nel 1258 Gualteruccio, divenuto nel frattempo maggiorenne, confermò i
patti sottoscritti dagli zii, mentre Pietro esercitava la podesteria in
Tolentino, trattando con il sindaco Jacopo di Bartolomeo la cessione della sua
quota parte. Anche Uguccione di Colmurano cedette la quinta parte del castro per
400 lire, una casa e un molino. Nello stesso tempo, il 4 luglio, Rosso, Pietro e
Gualteruccio si divisero in parti uguali le proprietà di famiglia. Nel
documento risulta una precisa descrizione di Urbisaglia in questo periodo con le
sue case, le chiese, le mura, il borgo, i molini, i pascoli e le vigne. Inoltre,
nel documento si accenna ad una contrapposizione tra il vecchio borgo e il
nuovo, costruito ai vertici della collina. Questo lascerebbe supporre che si sia
dato inizio alla ricostruzione del nuovo borgo sul vertice della collina, o
forse ad un suo notevole ampliamento urbanistico.
Continuano le guerre tra i
comuni marchigiani
Si avvicendarono nella Marca Annibaldo di Trasmondo, nipote di Alessandro IV, e
i vicari di Manfredi di Svevia ( 1232 - 1266), Percivalle D'Oria d'Aversa, che
distrusse Camerino nel 1259 e ricostruita poi da Gentile da Varano, e Enrico da
Ventimiglia. Inoltre, Sanginesio venne condannata per le cavalcate perpetrate
contro Ascoli, Tolentino e Belforte, mentre viene esortata a prendere le armi
contro Offida e Fermo. Sia dai rettori della Marca che dai vicari imperiali
venne concesso a Tolentino di distruggere Belforte e incastellarne gli abitanti
nel 1260. Negli anni successivi Tolentino riuscì a sottomettere Santangelo e
Montenereto; mentre Montolmo distrusse violentemente Petriolo e ne incastellò i
superstiti abitanti, compresi quelli originari di Colbuccaro. Infatti, i comuni
più forti approfittarono delle varie vicende, nella disputa di potere tra il
papato e l'impero, per estendere continuamente il proprio dominio sui territori
limitrofi: Macerata su Lornano; Camerino su Caldarola e altre piccole ville
(Rocchetta, Dignano, Fiuminata, ecc.); Sanginesio su Poggio dell'Acera, Cerreto,
Colonnalta, Colle, Morico e Montalto.
Dopo la definitiva sconfitta di Manfredi a Benevento e la triste fine di
Corradino di Svevia (1252 - 1268) a Tagliacozzo, venne stipulata la pace tra
l'impero e il papato mettendo fine alle lotte per la supremazia, e la Chiesa si
trovò a governare sulla Marca, al cui governo i papi inviavano un Legato o
Rettore. nominato per un periodo da uno a quattro anni, e per compiacere gli
Angioini furono in genere dei laici a partire dal 1268, mentre Innocenzo III
aveva preferito altissimi ecclesiastici, spesso cardinali. Ai rettori per le
questioni temporali, con a lato delle corti d'appello per le cause provenienti
dalla provincia, si affiancarono dei rettori in spiritualibus, per utilizzare le
armi spirituali contro i ribelli, e dal 1972 comparvero anche i tesorieri per
amministrare le finanze, scorporando la competenza da quelle generali dei
rettori. Dal 1978 si tennero anche dei parlamenti provinciali, soprattutto per
definire la tallia militum, il riparto delle spese militari, ma il consenso si
riduceva di solito ad una presa d'atto di decisioni prese dall'alto e presentate
dal rettore.
Tolentino non demorde dalle
sue mire su Urbisaglia
Trascorsi pochi anni, Tolentino tornò alla carica nelle sue aspirazioni
espansionistiche. Risulta, infatti, una pesante condanna per 10.000 lire
anconitane e ravennati, emessa dal giudice generale della Curia Gentile da Osimo
e dal Rettore della Marca, Fulko de Podio Riccardi, a Tolentino per aver
bruciato di nuovo il castro di Urbisaglia, con la partecipazione di fabbri
guastatori delle porte e un gruppo di fuoriusciti banniti (perché colpiti dal
bannum 'bando' di carolingia memoria), portandovi distruzione e morte, il 5
ottobre. Il fatto provocò immediatamente la reazione interessata di Camerino e
Sanginesio. Lo stesso Rettore, inoltre, mise Urbisaglia sotto la protezione di
Sanginesio, obbligandolo a inviare un sergente con una guarnigione a guardia del
paese, mentre si istruiva l'istruttoria per la ripetuta distruzione di
Urbisaglia. Il fuoriuscitismo, che fu un fenomeno diffuso, palesa l'incapacità
di garantire un'ordinata competizione politica nelle città. Esprimeva, in
ultima istanza, la sola superficiale adesione alla civiltà del principio
maggioritario, che avrebbe imposto di seguire i voleri della maggioranza. La
faziosità politica e la parzialità dei sistemi di promozione dei gruppi
dirigenti il comune, pur avanzatissimi essendo i più democratici del tempo,
riempirono di banditi per motivi politici le città italiane, alimentando una
specifica trattatistica giuridica sui complessi problemi legali che essi
suscitavano in quel mondo di piccoli e piccolissimi stati, ognuno con il suo
statuto e la sua legislazione.
Quasi certamente in questo periodo va collocata la notizia che frate Giovanni,
provinciale degli Agostiniani della Marca, concedesse al suo monastero di
Tolentino di nominare, come cappellano nella chiesa di san Giorgio in Urbisaglia,
un nipote di Accorambono da Tolentino, poiché Rosso e Fidesmido avevano ceduto
agli agostiniani il diritto di juspatronato sulla chiesa per una sola volta.
Nell'ottobre del 1276, Pietro e Rosso fecero atto di sottomissione a Teodorico
Aldrovandi, sindaco di Camerino, che si era alleato con Sanginesio contro i
tentativi di espansione territoriale perseguiti da Tolentino. I derelitti
Signori di Urbisaglia si impegnarono all'omaggio annuale di un palio di seta da
consegnare nelle feste patronali di Camerino e di Sanginesio, oltre alle solite
norme di incastellamento e di perseguire la pace o la guerra, secondo i dettami
delle autorità cittadine del momento. Il protettorato interessato perdurò per
circa dieci anni, come risulta dalla comunicazione spedita ai maggiorenti di
Camerino, perché inviassero due sergenti a guardia del castro nel 1285.
La politica di espansione di Tolentino aveva ottenuto, intanto, un positivo
risultato con il conclusivo acquisto di Montenereto da Guidone e Vicomanno nel
1270, accerchiando ancora di più il territorio di Urbisaglia. Qualche anno
dopo, per stroncare ogni possibile ribellione, suscitata dall'indomita e fiera
indole degli abitanti, il castro venne completamente distrutto. Ad altro
risultato positivo Tolentino pervenne con la definitiva acquisizione di
Colmurano, iniziata nel 1204 e conclusa nel 1272, con l'ultima quietanza
rilasciata da Pietruccio di Berardo di Offone e da Uguccione di Gualtiero, gli
ultimi Signori di Colmurano.
I signori di Urbisaglia
continuano a dividersi proprietà e giurisdizioni
Il 12 luglio 1285 è documentata la morte di Rosso e di Pietro. Nella pergamena,
che tratta della divisione dell'eredità di Rosso, è possibile ricostruire la
loro discendenza. Rosso aveva sposato donna Adisia e dal loro matrimonio
nacquero cinque figli: Druda, Clara, Tommasia, Federico e Avia; questi ultimi
due probabilmente erano già morti prima del padre. Infatti, Giovanni
Pallariense di Ancona, in qualità di marito di Druda e padre dei loro figli
Jacobo e Lendesina, ottenne la procura anche per gli interessi di Clara e della
nipote Aldiscola, orfana di Federico. La delega ricevuta riguardava la cura
legale nella divisione dell'eredità di Rosso dagli eredi di Pietro: Fidesmido e
Nuzio. L'atto fu stilato sul sagrato della chiesa di san Giorgio, dopo che era
stato emesso un laudo d'arbitrato. L'esteso patrimonio di terre e il
vassallaggio di numerosi uomini venne spartito in due parti uguali ed assegnato
estraendo a sorte sia la proprietà che il possessore. Successivamente, il 19
marzo 1286, Fidesmido sottoscrisse un altro atto notarile per la divisione delle
proprietà e degli immobili dagli altri parenti più prossimi. Nel frattempo,
Fidesmido non si poteva muovere molto liberamente nel territorio della provincia
facendolo a suo rischio e pericolo, infatti nel 1289 un certo Arnoldo di
Pietruccio da Tolentino fu condannato dal rettore Giovanni Colonna alla multa di
25 lire per averlo percosso e ferito il suo cavallo, durante una lite.
Il 12 dicembre 1290, alla presenza di tutte le religiose del monastero di san
Giovanni di Sanginesio, appartenenti alla nobiltà dei comuni limitrofi, fu
designato come procuratore per Tommasia di Rosso, il cappellano don Corrado di
Berardo, delegandolo a vendere la quarta parte dell'eredità di Rosso percepita
dalla monaca a Rainaldo di Falerone, padre di Fulchitto e marito di Lendesina, e
a Filippo marito di Clara al prezzo di 600 lire ravennati e anconitane. Nel
documento si impugna anche un lodo effettuato da Gualterio domini Angeli de
sancto Genesio e un compromesso mediato da Matteo domine Camerine come sindaco
dello stesso monastero con Fidesmido.
La proprietà terriera dei Signori di Urbisaglia fu frazionata così tra i
diversi legittimi eredi, ma il potere politico era rimasto intatto e ben saldo
nelle mani di Pietro, anche come tutore di Nuzio, i quali si rivolsero al Papa
per ottenerne la formale conferma, come risulta da una pergamena del 15 marzo
1291, in cui Niccolò IV (inizio sec. XIV - 1292) confermò loro in perpetuo il
dominio e la facoltà di giudicare le cause criminali e civili nel territorio di
loro giurisdizione.
La vacatio del soglio di
Pietro spinge Tolentino a tentare di nuovo la conquista di Urbisaglia
L'improvvisa scomparsa del Papa gettò lo stato della Chiesa in un caos
indescrivibile. Furono necessari due anni di conclave per eleggere Celestino V (c.a
1210 - 1296), il frate eremita Pietro da Morrone, che poco tempo dopo rinunciò
alla tiara pontificia e per questo Dante, ostile al successore Bonifacio VIII
(1235 c.a - 1303), non risparmiò al vecchio eremita, che fece per viltate il
gran rifiuto, l'epiteto di ignavo e il vestibolo dell'Inferno.
Così agli inizi del 1293, Tolentino, per nulla dissuaso dalle numerose bolle
papali contrarie, attaccò Urbisaglia, occupando militarmente la rocca e il
castello e decapitando il castellano. Una lettera posteriore del rettore della
Marca Gerardo, vescovo sabinense, così ricorda l'episodio: mentre Fidesmido
dominava pacificamente e quietamente il castro, gli uomini di Tolentino radunato
un esercito con il contributo di quelli di Sanseverino, assalirono i castro
nonostante gli inviti contrari fatti dai giudici e maniscalchi del Rettore.
Espugnarono Urbisaglia, catturarono Fidesmido, contro il diritto e la giustizia
lo spogliarono delle sue proprietà, e lo incarcerarono. Con la forza e la
costrizione lo ricattavano continuamente alla vendita. Per gli accorati ricorsi
presentati da Fidesmido alla Curia, gli restituirono il castro e le sue proprietà,
ma conservarono il costantemente controllo militare delle mura e della rocca.
Il 5 ottobre il consiglio generale di Tolentino nominò Buongiovanni di Tommaso
Passiani alla carica di sindaco per conseguente e scontato acquisto di
Urbisaglia.
Nello stesso giorno vennero stilati la promessa di pagamento e l'atto di vendita
da parte di Fidesmido e delle altre nobildonne Margherita, Clara e Lendesina
(rappresentata dal padre Giovanni Pallariense) al prezzo di 10.000 lire di
Ravenna e di Ancona. Inoltre, Tolentino si premurò di acquistare alcune case al
proprio interno per donarle a Fidesmido e obbligarlo così ad incastellarsi e
risiedervi. Forse, Fidesmido aveva necessità di soldi, poiché nello stesso
giorno le rivendette a tal Francesco di Biagio.
Risulta in questo stesso anno, il giorno 6 agosto, anche una pergamena che
riporta un atto di vendita sottoscritto da Fidesmido ad alcuni privati cittadini
di Tolentino: Salimbene di Marino, Corrado di Palmiero, Giacomo di Salinguerra e
Caniccolo di Matteo. Su questo documento, che tutto concorre a farlo presumere
un falso storico, ci ritorneremo sopra di qui a breve in modo più esteso.
Ancora cause davanti i
tribunali della Curia tra Tolentino e i signori di Urbisaglia
Ancora, nel giorno 11 febbraio del 1294, Tolentino presentò ricorso contro la
condanna in contumacia per le spedizioni di guerriglia condotte contro gli
abitanti di Urbisaglia, di Sanginesio, di Belforte e di Ripe, alla multa di
10.000 marche d'argento dal giudice generale Ghisenti da Gubbio e dal rettore
della Marca Raimondo, vescovo di Valenza. Nel ricorso si sosteneva che Tolentino
non si era presentata poiché, in quel periodo era in contrasti civili e
militari con Macerata, tali da non garantire l'incolumità diplomatica dei suoi
ambasciatori. Mentre nella sentenza si affermava che Fidesmido fosse detenuto
illegalmente in catene, onde fagocitare la sua resistenza e a rinunciare
volontariamente ai propri diritti di possesso. Così la vendita precedente,
effettuata sotto la costrizione del carcere, venne di nuovo annullata.
Dopo la condanna, i rappresentanti di Tolentino si presentarono al tribunale di
Macerata per inoltrare un'istanza d'appello al Papa conoscendo bene che il
soglio pontificio permaneva sempre vacante; ottennero solo di essere arrestati e
imprigionati. Allora, il 22 agosto del 1294, ripeterono la stessa richiesta,
comprendendovi anche l'appello per la condanna ricevuta in occasione
dell'assalto a Sanginesio, dove avevano ucciso il podestà, a frate Tommaso,
priore del monastero di sant'Agostino in Tolentino. All'atto, stilato dal notaio
Bartolomeo Nicolutii era presente, tra altri monaci, un certo frate Nicola,
citato per primo tra i numerosi testi. Quasi certamente si tratta di san Nicola
da Tolentino (1245-1305), che venne canonizzato nel 1325, il cui processo di
santificazione ci fornisce notizie utili e interessanti per la storia di
Urbisaglia e uno spaccato vivace e realistico della società del tempo. Infatti
negli atti viene riportata, oltre alle numerose testimonianze sulle attività
spirituali svolte da san Nicola nel circondario di Urbisaglia, la notizia che la
stessa moglie di Fidesmido, Pluccheneve, recuperasse l'uso della vista per
l'intercessione del santo, mentre questi celebrava rapito la messa sull'altare
del suo convento in Tolentino.
Intanto, il 16 maggio Clara e Lendesina sottoscrissero una convenzione con
Tolentino per la vendita della loro quota del castro di Urbisaglia. Negli anni
successivi rilasciarono innumerevoli quietanze per esigue cifre di denaro,
l'ultima da parte della sola Clara si effettuò nel 1298. Probabilmente le somme
venivano devolute in cambio per il riscatto dalle servitù consuetudinarie dei
suoi vassalli, certamente già incastellati in Tolentino, e per sanare queste
situazioni di fatto.
Il 3 dicembre dal consiglio generale venne eletto il procuratore incaricato
della riconsegna, nelle mani di Giovanni Iscronano e Berardo de Pepito, famigli
del Rettore della Marca Gentile di Sangro, del castro di Urbisaglia occupato
militarmente, dopo che Tolentino aveva ricevuto l'ingiunzione per la
restituzione. Inoltre, il 16 gennaio 1295, Buongiovanni Zocchi, sindaco di
Tolentino, si recò a Montolmo, sede allora del Rettore della Marca, per saldare
con acconti le varie multe subite e per dilazionare il più possibile i
pagamenti residui. Poiché Tolentino era ribelle alla Chiesa, alcuni notabili
locali garantirono la consegna al tesoriere Uberto di 1.000 fiorini nella
domenica successiva e di 3.000 alle calende di febbraio. Nell'atto viene
descritto l'assalto a Urbisaglia: gli uomini di detto castro (Tolentino) insieme
e singolarmente, in modo ostile, suonando campane e trombe, con vessilli e
bandiere spiegate, con le armi necessarie ad un esercito fecero una sortita e si
avvicinarono a piedi e a cavallo al castro di Urbisaglia, soggetto alla Chiesa
Romana. E con violenza entrarono nel castro e assediarono la rocca o arce
percuotendo e ferendo gli uomini che vi erano, e dopo un po' li debellarono.
Inoltre, vennero bastonati Lambertuccio Adacani, che ricopriva la carica di
castellano, i suoi sergenti Agostino Pasculis e Buongiovanni Salonis, insieme
con il notaio Peduzio. La difesa del castro e la custodia della rocca vennero
affidate dal Rettore provvisoriamente a Gentile di Nicola, sindaco incaricato da
Sanginesio, sotto la protezione del quale Urbisaglia era stata posta, il 28
febbraio del 1295.
Inoltre, il Rettore convocò, sotto pena della scomunica in caso di contumacia,
Margherita e Clara presso il tribunale di Macerata. Le due donne si presentarono
per giustificare il comportamento assunto durante la forzata vendita di
Urbisaglia e per dimostrare i titoli legali del possesso del castro; ottennero
così l'assoluzione e rimesse libere.
Contemporaneamente, il 1 marzo, Clara delegò un procuratore legale a
rappresentarla in una lite giudiziaria contro Fidesmido, agevolando così
Tolentino. Nel maggio, la Curia di Macerata nominò una commissione d'indagine
sulla causa vertente tra Fidesmido e Tolentino; che vedendo la male parata presa
dagli avvenimenti si appellò direttamente al giudizio del Papa. Infatti, il 14
luglio, furono eletti i procuratori e gli avvocati da inviare a Roma per una
soluzione positiva dell'annosa causa.
Il rettore della Marca, Federico vescovo di Ferrara, il 7 agosto, assolse
Sanginesio dalla condanna subita per essersi rifiutata di riconsegnare il castro
alla richiesta di un suo ambasciatore. Infine, essendo oramai la questione
divenuta un affare troppo importante e che per giunta iniziava a sconvolgere i
precari equilibri dell'intera provincia a causa dei numerosi comuni coinvolti,
il 26 novembre, il nuovo papa Bonifacio VIII avocò direttamente a sé la causa
giudiziaria per ricreare un clima politico più tranquillo e contemporaneamente
per guadagnare tempo. Dopo una protesta di Tolentino per non far decorrere i
termini del ricorso, il processo venne iniziato il 16 dicembre. Il 28 febbraio
del 1296, il consiglio di Tolentino scrisse delle lettere al Curia di Macerata,
inibendogli di intromettersi nella causa con Fidesmido e di limitarsi alla
semplice citazione dei testimoni davanti ai tribunali romani. Infatti, il 5
aprile, Corradino Meliorati, venne eletto come procuratore giudiziario per
recarsi a Roma davanti a Bonifacio VIII, per la causa in corso. Nell'occasione,
astutamente, si propose di saldare anche alcuni vecchi censi, che si dovevano
versare da lungo tempo alla Curia.
Le notizie, che i documenti riportano, ci danno un quadro della situazione nel
1296 molto confusa e intricata. Sembrerebbe che a Tolentino un gruppo di persone
inaffidabili abbia raggiunto le massime cariche del governo cittadino. E
attraverso violente intimazioni cercava di forzare la mano al Papa per farlo
trovare di fronte al fatto compiuto nella causa con Fidesmido. Infatti, il 23
aprile il consiglio generale di Tolentino venne convocato per eleggere alla
carica di sindaco Buongiovanni Zocchi, delegandolo all'acquisto di Urbisaglia da
Salimbene di Marino, Caniccolo di Matteo, Giacomo di Salinguerra e Corrado di
Palmiero. Risultava agli atti che questi nobili avessero acquistato Urbisaglia
da Fidesmido fin dal 1293. Quasi sicuramente quel documento è un falso e fu
creato con la compiacenza di alcuni notai per convincere il tribunale di Roma
della correttezza giuridica e del pieno diritto di proprietà esercitato da
questi nobiluomini. In periodi storici come questo, pieni di confusione e
contrasti e con il governo centrale lontano e debole, non era raro il ricorso a
questi maneggi per legalizzare atti di forza intrapresi dai più intraprendenti.
L'atto di vendita venne stilato nello stesso giorno davanti al podestà Tancredi
Albrici da Spoleto, pagando 10.000 lire ravennati e anconitane. Ma il 28 aprile,
Rainaldo da Milano, auditore delle cause in Roma, comunicò a Giovanni canonico
della pieve di santa Maria di Tolentino, la conferma delle multe inflitte ai
Tolentinati dal rettore della Marca Gentile di Sangro: 1.000 lire d'argento
perché distrusse e fece distruggere il castro, le case, il girone di Urbisaglia
e altri beni nelle possessioni di Fidesmido; 200 lire d'argento perché
detenesse carcerato Fidesmido contro la sua volontà per costringerlo alla
vendita dei suoi beni; 10.000 lire d'argento perché predictum comune
deliberatione prehabita universaliter et singulariter more hostili pulsata
campana et tubis cum vexillis et banderiis et armis ad exercitum opportunis
equitasse et accessisse equester et pedester ad castrum Orbisalie et ipsum
castrum per violentiam intrasse et occupasse casserum seu arcem ipsius castri
obedisse percutiendo et ledendo homines qui ibi erant et ipsum postea
debellasse; quasi identici resoconti ripetuti per Camporotondo, Belforte,
Serrapetrona e Sanginesio; altre condanne per ribellione alla Chiesa, ruberie ai
mercanti transitanti nel loro territorio, stupri e ruberie con incendi di case;
e soprattutto condanne specifiche agli stessi nobili che figurano come
proprietari nell'atto di vendita di Urbisaglia, quello che consideriamo falso.
L'atto è importante per comprendere la caotica situazione politica e sociale
del momento a Tolentino. Oltre alla sentenza di condanna definitiva per la lite
con Fidesmido, vi sono allegate altre pesanti condanne riguardanti tutti i
testimoni e i protagonisti che comparivano nell'atto di vendita incriminato e
negli altri atti comunali del periodo, chiarendo definitivamente che erano
magistrati e rappresentanti di quella comunità. I fatti si potrebbero
interpretare in questo modo: alcuni cittadini di Tolentino si erano impadroniti
con la forza del castro di Urbisaglia e quindi lo avrebbero rivenduto
tranquillamente alle autorità costituite, di cui loro erano parte integrante.
Si sapeva bene che Roma era distante e le cose più sono ingarbugliate più sono
difficili da comprendere e dipanare da lontano.
Frattanto, il 13 luglio, venne ingiunto alla comunità urbisagliese ad
accogliere con benevolenza il notaio inviato dalla Curia, che precedentemente
era stato apostrofato con male parole, minacciato con le armi e scacciato con
ignominia da alcuni cittadini, probabilmente delusi dell'operato della curia.
L'11 settembre il castellano di Urbisaglia, Bartolomeo Albertuzii di Santa Maria
in Giorgio, rilasciò una quietanza di 96 lire ravennati a Gentile Vignati,
sindaco di Tolentino, per la custodia del castro e della rocca di Urbisaglia,
che aveva presidiato insieme ai suoi sergenti dal maggio precedente fino a quel
giorno. Mentre, il 19 aprile e il 16 settembre del 1297, le autorità
amministrative di Tolentino continuarono a sottoporre nuove petizioni e
suppliche a Bonifacio VIII per ottenere una rapida soluzione della costosa
vertenza.
Frattanto, il giorno 20 giugno, Clara di Rosso promise a Buongiovanni Petrelli,
sindaco di Tolentino, di affrancare tutti i suoi vassalli residenti ad
Urbisaglia, insieme a quelli della sorella Tommasia, monaca a Sanginesio,
ricevendone in cambio 625 lire ravennati e anconitane. Fidesmido, invece,
navigava quasi sicuramente in brutte acque finanziarie, tanto che dovette
chiedere e prendere a prestito da Pietro Scotto, giudice a Sanginesio, la bella
somma di 700 fiorini d'oro, dando probabilmente come garanzia le sue numerose
proprietà in Urbisaglia, delle quali certamente non aveva alcuna possibilità
di disporre liberamente.
La diplomazia di Tolentino
finalmente raggiunge lo scopo di sottomettere Urbisaglia
L'influenza diplomatico-militare di Tolentino si sviluppò in modo sempre più
continuo e pressante, finché tramite accordi politici e patti militari con
altri comuni l'intera provincia fu divisa in vere e proprie sfere di competenza.
In questo contesto, Urbisaglia era un fragile vaso di coccio in mezzo a vicini
divenuti troppo potenti. Dopo varie vicissitudini, assedi e guerricciole e un
lungo brigare, Tolentino era riuscita nel suo intento di entrare definitivamente
in possesso del borgo con il consenso di Camerino, di Sanginesio e soprattutto
dei Varano, che avevano principiato ad esercitare quasi una vera e propria
signoria su queste zone. Nell'archivio storico di Tolentino esistono ancora
tutte le pergamene delle deleghe e degli atti di vendita riguardanti Urbisaglia.
Il 19 settembre del 1303 cominciarono le danze delle varie vendite. Il consiglio
generale di Sanginesio attraverso il sindaco Marino Johannini e il podestà
Corrado Magalotti di Montecchio rinunciò a tutte le proprie pretese sopra
Urbisaglia in favore di Camerino. Il 15 ottobre il consiglio di Camerino nominò
Andreolo di Angelo come sindaco per rivenderla a Tolentino, alla presenza del
podestà Paolo di Corrado da Branca e fece pressione su di Fidesmido
condonandogli un oneroso debito, contratto insieme a Roberto de Montecchio, per
la bella cifra di 1.400 fiorini aurei nei confronti di Sanginesio e Camerino. Il
16 ottobre fu il consiglio generale di Tolentino ad eleggere il sindaco Berardo
Corradi Gualfredi. Quindi il 18 Ottobre Camerino cedette i propri diritti sopra
Urbisaglia a Sanginesio e questi a sua volta li rigirò a Tolentino. Così
finalmente Tolentino poté concludere l'affare, acquistando Urbisaglia da
Fidesmido con il consenso di Camerino, di Sanginesio e del rettore della Marca.
Nello stesso giorno fu stilato l'atto di vendita, alla presenza dei sindaci di
Camerino e di Sanginesio, di Antonio, rettore della Marca e vescovo di Fiesole,
di Rodolfo e Berardo di Gentile da Varano, di Berardo vescovo di Camerino, di
Accorambono di Tolentino, di Giovanni Gualteruccio di Loro, di Roberto da
Montecchio, di Accorambono di Caldarola e altri nobili tolentinati e non. Con
impressionante solennità e pompa magna, nell'affollata piazza grande del
comune, sotto lo sguardo accondiscendente dei potenti della provincia, Fidesmido
di Pietro, signore di Urbisaglia, concesse ogni diritto su Urbisaglia al podestà
di Tolentino Napoleone Cardinali e al sindaco Corrado Gualfredi, di sua propria,
semplice, spontanea e libera volontà, come riporta ironicamente il documento,
ricevendone in cambio la non modica somma di 15.000 libbre ravennati e
anconitane, di cui 4.000 consegnate subito e le altre nei futuri 11 anni nel
giorno di Ognissanti. Vengono salvaguardati i diritti dotali della moglie di
Fidesmido, Pluccheneve e quelli di Gilberto da Petriolo. La citazione dei
pretesi diritti questo nobile, per altri versi sconosciuti, suffragano l'ipotesi
di un indebitamento sostanzioso, a cui era stato costretto Fidesmido poiché non
poteva attingere liberamente all'uso delle proprie sostanze requisite in
Urbisaglia in questi anni.
Nello stesso giorno vennero sottoscritti anche i patti segreti tra Fidesmido e
il comune di Tolentino: esenzione per sé e i suoi discendenti da ogni ossequio
e tassa per i ponti, le strade e le fortificazioni; facilitazioni nell'acquisto
di una casa a Tolentino con vigna e orto; l'obbligo di partecipare alla difesa
di Tolentino con due cavalli; il divieto per gli altri e l'esclusiva per lui di
poter edificare molini, gualcherie o frisculi lungo il Fiastra e l'Entogge;
l'obbligo per gli abitanti di Urbisaglia di macinare il grano nei suoi molini;
il diritto esclusivo alla sua famiglia di nominare i rettori sulle chiese di
juspatronato; la restituzione delle sue proprietà usurpate dai vassalli durante
la lite giudiziaria e il riconoscimento della proprietà delle case situate
fuori dal girone; l'obbligo di risiedere a Urbisaglia e che la sua abitazione
non venisse fortificata; la garanzia che alcuni suoi seguaci venissero esentati
dall'obbligo di militare nella milizia di Tolentino; la licenza di poter portare
armi per sé e quattro suoi famigli; il permesso di poter costruire un vallato e
un molino nuovi, e di poter riscuotere le gabelle e le dative arretrate;
l'impegno di contribuire allo stipendio del podestà di Urbisaglia e dei suoi
ufficiali e giudici; inoltre si riserva la proprietà dei ruderi, affioranti
sopra a terra.
Immediatamente, il rettore della Marca fece stilare l'atto di approvazione,
giustificandolo con l'affermazione di voler evitare situazioni irrisolte di
dissidio tra i comuni di Tolentino, Camerino, Sanginesio e Montecchio e ordinò
a Fidesmido di presenziare alla cerimonia ufficiale di presa del possesso di
Urbisaglia da parte di Tolentino. Infatti, il 21 ottobre, Fidesmido e il sindaco
di Tolentino, Corrado Gualfredi, alla presenza degli altri sindaci dei comuni
interessati e dei nobili presenti all'atto di vendita, si passarono le consegne
del possesso davanti alla popolazione riunita nel borgo e nel girone di
Urbisaglia. Nello stesso giorno, Fidesmido rilasciò una quietanza per l'acconto
di 4.000 lire ravennati e anconetane. Poi il 5 novembre si premurò di attestare
che Tolentino gli doveva altre 2.000 lire pro cavalleria et datio, senza alcun
pregiudizio sulla somma totale pattuita nella vendita.
Il 22 ottobre, con il popolo riunito nella piazza presso la chiesa di san
Giorgio, i cittadini di Urbisaglia fecero atto di sottomissione a Tolentino e
per rendere più convincente e pubblica la nuova situazione, la procedura venne
ripetuta una settimana dopo anche a Tolentino, nella piazza antistante la chiesa
di san Catervo.
Il 16 novembre il Rettore della Marca riconfermò con sollievo la
confederazione, rinnovata tra Camerino, Sanginesio, Tolentino e Montecchio per
superare le discordie, che erano sorte dalla esplosiva situazione di Urbisaglia,
e pacificare contestualmente l'intera provincia.
Si concluse così miseramente la lunga epopea, che aveva portato Urbisaglia a
resistere con tutti i mezzi leciti contro lo strapotere e la prepotenza
dell'invadente vicino. Il comune di Tolentino solo con l'ausilio delle autorità
superiori, i Varano e il rettore della Marca, riuscì nel suo intento arrivando
perfino a fare carte false (nel senso letterale del termine) per perseguire i
suoi fini di espansione. Indubbiamente se la sottomissione di Urbisaglia a
Tolentino aveva cancellato il suo nome dal novero delle Terre murate autonome,
tanto da non risultare nelle costitutiones Egidiane, i suoi cittadini si
ritrovarono più liberi e non gravati dalle imposizioni dei vecchi Signori. Si
concluse un epoca, caratterizzata dal lento risorgere dalla profonda decadenza
dell'alto medioevo. Infatti il XII e XIII furono indubbiamente secoli di forte
espansione economica; perché essa volle dire mobilità sociale e tensioni
politiche e istituzionali accentuate. Basterà pensare ai rapporti fittissimi
tra città e campagna, economici, ma di nuovo anche sociali per l'inurbamento
massiccio, anche forzato, come mai prima si era avuto, e quindi anche politici e
istituzionali; o alla competizione tra le città - che non fu meno dura di
quella tra Comuni e Impero - per la conquista del territorio circostante, che
comportava guerre, ribaltamenti di alleanze, modifiche profonde nelle strutture
dei mercati; o ai prelievi fiscali, ora per la prima volta di grande entità,
necessari per mobilitare schiere armate e fortificare ovunque.
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Dalla
vendita a Tolentino al periodo di Francesco Sforza
1303 - 1447
La Marca nello Stato della
Chiesa
Seguirono anni di tumulti, anche perché la situazione sociale e politica non si
era completamente stabilizzata, ma continuavano i tentativi di espansione e di
egemonia dei Comuni più grandi in assenza di un controllo forte da parte dello
stato centrale. In questa complessa fase storica, si vennero imponendo nuove
forme di produzione e nuovi rapporti sociali, basati su un'economia mercantile,
monetaria e cittadina, accanto e in contrapposizione all'immobilismo di una
economia agraria, alla supremazia dei Signori del contado e alla rigida
gerarchia dei rapporti feudali. Lo Stato pontificio non si era formato in
seguito ad una conquista violenta imposta da un vincitore, ma erano state le
singole città che per sottrarsi all'autorità imperiale si erano poste sotto il
dominio della Chiesa riconoscendone liberamente il potere.
Nello Stato della Chiesa, dove mancava ogni stabile raccordo fra stato e
famiglia regia, dove il sovrano era elettivo, anziano e quindi in genere al
potere solo per brevi periodi, dove era assente un solido tessuto di fedeltà
feudo-vassallatiche, dove ufficiali e personale burocratico erano per lo più di
condizione chiericale e largamente proveniente da regioni esterne alla Stato,
insomma in questa sorta di monarchia elettiva e collegiale, il governo centrale
aveva stretta necessità della collaborazione e dell'appoggio delle oligarchie
locali. In nessun modo i papi intendevano minarne il potere e la salda egemonia
sul corpo sociale: che i nobiles viri continuassero a trarre le risorse
fondamentali dall'appalto delle gabelle, dall'affitto dei beni comunali, dalle
speculazioni sul debito pubblico a breve, dalle libertà d'intervento nella
ripartizione delle imposte dirette, dal controllo dei maggiori uffici della città
e del contado, era accettato e anzi per più versi agevolato e favorito.
Infatti, il governo centrale si accontentò solo di avocare a sé la nomina del
podestà e di sottoporre i comuni ad un controllo sempre più rigoroso in
materia tributaria e fiscale, scendendo sovente a patti sottintesi con le
oligarchie cittadine che egemonizzavano il potere politico nelle singole città.
Si impongono alcune signorie
nelle città della Marca
In provincia alcune importanti famiglie, con responsabilità e ruoli
diversificati, rappresentarono l'anima guelfa e furono garanti per le rispettive
città d'origine, di sottomissione al papato, prefigurando quasi un prototipo di
signoria: i Varano a Camerino, gli Smeducci a Sanseverino, gli Ottoni a Matelica,
i Cima a Cingoli, gli Accoramboni a Tolentino e i Molucci a Macerata. Erano
famiglie magnatizie attive nelle loro città già prima l'affermarsi del regime
signorile; ma sin d'allora nettamente separate dai ceti inferiori con un
processo di unificazione sociale fra i potenti. Erano di origine eterogenea e in
violenta competizione tra loro, ma strettamente ormai collegate dalle strategie
matrimoniali e dal monopolio degli uffici ecclesiastici più redditizi.
Dopo aver effettuato una cavalcata contro Matelica, Camerino con i Varano
raggiunse la pacificazione e una egemonia sul territorio della provincia solo
due anni dopo, nel 1306, stringendo accordi per un'alleanza con Fabriano,
Sanseverino e la stessa Matelica.
Il nuovo governo di
Tolentino su Urbisaglia
Le principali prerogative, che Tolentino esercitava su Urbisaglia
(l'approvazione degli statuti e delle riformanze, la ripartizione del carico
fiscale, la nomina e l'imposizione della presenza del podestà ai consigli
generale), testimoniano la puntigliosa rivendicazione di supremazia sul
distretto. D'altronde Urbisaglia aveva rinunciato forzatamente alla propria
indipendenza, ma non alla difesa della propria autonomia, continuando a
mantenere le sue magistrature, la capacità giuridica delle sue assemblee
pubbliche e l'amministrazione delle proprietà comunali.
Il 6 gennaio 1304 venne riunito il consiglio generale di Tolentino dal podestà
Simone di Bonifacio de Tacanis per nominare Bonaventura Benvenuti come sindaco
per acquistare la parte di Lendesina, moglie di Jacobuccio domini Guglielmi da
Jesi e figlia di Jannicti domini Pallariensis da Ancona e di Druda di Rosso, per
800 lire. L'atto venne stipulato, il 22 febbraio, da Buongiovanni di Tommaso
Parisiani come sindaco e procuratore di Tolentino, che contrattò la vendita di
Urbisaglia da parte di Clara di Rosso, di Lendesina e della madre Druda al
prezzo di 10.000 lire ravennati e anconitane, facendo la quietanza per sole 800.
Nella vendita erano compresi anche i diritti di proprietà di Lendesina e della
stessa madre. Clara si riserva di non vendere una casa in Tolentino; inoltre,
insieme a Fidesmido e Margherita, certamente presenti all'atto anche se non
citati, si impegna ad ottenere l'approvazione personale di Lendesina. Il 3
settembre il monastero di san Giovanni di Sanginesio, nominò un difensore dei
suoi interessi poiché Fidesmido aveva venduto anche la quota appartenente a
Tommasia di Rosso, monaca in quel monastero. Ancora, il 24 novembre, Fidesmido
fece una quietanza per il pagamento di 700 lire al vicario comunale Gualterio
domini Thome da Offida, a Corrado Gualfredi e al camerario Agure Petri Benecase.
Nel dicembre del 1305 il sindaco di Tolentino, Corrado di Giovanni da Jesi,
venne convocato dal giudice Antonio a per le accuse contro il comune fatte
dall'abbazia di Chiaravalle a causa delle divergenze sorte sui molini lungo il
Chienti e il Fiastra e perché i contadini dell'abbazia erano obbligati ad
alcune corvées. Venne assolto perché nell'indagine giudiziaria le accuse
risultarono infondate. Tolentino a dimostrare la sua innocenza mostrando un
documento del 30 gennaio, nel quale era stare liquidate 500 lire di risarcimento
a Serenideus di Loro, monaco e sindaco dell'abbazia di Fiastra, e all'ex abate
Giovanni alla presenza dei seguenti testi: Accorambono di Giovanni, Giovanni
Deutallevi giudice, Fidesmido da Urbisaglia podestà, Gualtiero domini Thome da
Offida giudice, i quattro priori delle arti Tommaso Tebaldi, Giordano
Buonaccursi, Giovanni Leti e Bonaventura Morici, oltre i notai Bonaventura
Benvenuti e Tommaso Thome.
Nella provincia, segnata dalla presenza di un locale particolarismo esasperato,
era scoppiata un'aspra guerra che contrapponeva Fermo a Sanginesio per il
controllo del borgo di san Lorenzo dell'Apezzana, oltre il fiume Fiastra. La
pace fu raggiunta solo il 20 gennaio 1306 con l'interessamento dei legati
papali: il vescovo Guglielmo e l'abate Piliforte.
Ultimi atti notarili dei
Signori di Urbisaglia
Il 12 settembre 1307, Clara di Rosso fece ad Assisi un atto di donazione,
riguardante la terza parte delle sue ricchezze in terreni e case, sia a
Tolentino che Urbisaglia, a Federico di Federico da Massa, zio materno, per i
molti e grati servizi ricevuti da lui e dal padre.
Fidesmido, dopo aver incassato diverse rate della vendita effettuata, fece
testamento nel 1309 nominando esecutore testamentario l'abate di Fiastra,
Matteo. Dal documento si scopre che aveva un fratello più piccolo di nome
Tardinellus, che non viene mai citato negli altri documenti coevi.
Probabilmente, come lascia supporre il nome, era un portatore d'handicap. Per il
suo sostentamento ereditò due cavalli e alcuni terreni sotto il protezione e
l'amministrazione dell'abate. Dopo alcune donazioni alle chiese locali, che
ricadevano sotto il suo juspatronato (san Giorgio, San Biagio e san Michele),
lasciò erede universale il nipote Fidesmido, figlio di Rodolfo da Camerino.
Dalla lettura attenta del documento, inoltre, ricaviamo l'impressione del
pessimo rapporto che Fidesmido tenesse con il vescovo di Camerino; probabilmente
la ragione va ricercata nelle forti pressioni subite nella vendita forzosa di
Urbisaglia oppure in mere questioni familiari, visto anche che il vescovo era il
fratello carnale di Rodolfo da Camerino, suo cognato.
Dopo che i principali Signori di Urbisaglia avevano perfezionato la vendita del
castro e della sua giurisdizione, restava fuori dal gioco solo la madre di
Fidesmido, Margherita per completare il pieno possesso di Urbisaglia da parte di
Tolentino. Infatti il 23 marzo del 1310 venne eletto a sindaco Gualterio di
Tommaso Tebaldi, notaio, per stendere l'atto a nome del comune. Per ottenere la
sua parte del prezzo pattuito si era rivolta al comune di Fermo che con la
rapresallia aveva fatto pressione su Tolentino, bloccando tutte le proprietà
terriere e mercantili possedute dai Tolentinati nel territorio del contado di
Fermo, minacciando di venderle per risarcire i torto subito da Margherita. Si
pervenne a questo passo estremo, poiché Margherita nel frattempo si era
risposata con Egidio di Guglielmo da Fermo, e in quella città risiedeva
acquisendone i diritti di cittadinanza. La rappresaglia era perfettamente legale
in quei tempi e ben codificata dalla giurisprudenza medievale. Era un'istituto
giuridico che si prefiggeva lo scopo di riparare i danni provocati dal
particolarismo e dalle autonome giurisdizioni dei comuni. Infatti concedeva la
facoltà ad un comune di sequestrare i beni e perfino di catturare le persone
originarie della città, i cui cittadini avevano perpetrato un torto o provocato
un danno ad un proprio concittadino, al quale poi non era stata resa un'equa
giustizia. Sotto la pressione di questo ricatto, i maggiorenti di Tolentino si
recarono rapidamente a Fermo per trattare un pacifico accordo. Pagarono a
Margherita, vedova di Pietro e madre di Fidesmido, 2.000 lire ravennati e
anconitane. In cambio Fermo promise di non molestare più gli abitanti di
Tolentino che commerciavano con i residenti a Loro e Santangelo. All'atto
firmato nel chiostro del vescovado erano presenti: Pietro Rainaldi da Mortone,
capitano del popolo di Fermo, Giovanni Aceti podestà, Fidesmido di Pietro
(ultima testimonianza ante quem che fosse ancora in vita), e numerosi altri
nobili gentiluomini della città di Fermo.
Nel giugno dell'anno successivo, Lendesina di Clara, insieme al marito Tommasino
Malpili, cedette tutti i suoi diritti sugli uomini e le proprietà in Urbisaglia
al sindaco di Tolentino, Vannuccio Gentiluzi, per la 200 lire.
Fidesmido di Camerino e
Urbisaglia
All'inizio del 1312 quasi certamente venne a morire Fidesmido di Pietro, infatti
il 9 febbraio Rodolfo di Giacobuccio da Camerino, curatore degli interessi del
figlio minorenne Smeduccio, che da questo momento assumerà il nome del nonno
Fidesmido, nominò due procuratori, Francesco Massi da Camerino e Francesco di
Paolo da Macerata, per difendere i diritti di successione del figlio davanti a
tutti i tribunali dei comuni della provincia. Intanto, anche Camerino aprì un
contenzioso con Clara di Rosso, contestandogli delle proprietà e nominando lo
stesso Francesco di Paolo come procuratore. Tolentino governava Urbisaglia
attraverso un castellano abbinandola a Colmurano, in quest'anno vennero
nominati, votandoli in una quaterna in consiglio, Aldrovanno Gilberto degli
Aldrovanni e Jacobuccio Sonebaldi.
Ma Clara passò a miglior vita, come risulta dal testamento redatto dal notaio
Bentivoglio Brunetti a Macerata nella casa di Giuliano di Paolo, nel marzo del
1312. Esecutore testamentario venne nominato il frate francescano Pietro
Raimondi. Frattanto, il giudice generale della Marca, Martino degli Ancellati,
condannò Rodolfo di Jacobuccio da Camerino e suo figlio Smeduccio, alias
Fidesmido, che con altri accoliti originari dei paesi circonvicini, avevano
cercato di impadronirsi di una proprietà dell'abbazia di Fiastra, trafugando
grano, orzo, spelta e buoi e impedendo loro di seminare e lavorare la terra.
Tolentino continua ad
amministrare Urbisaglia accentrando sempre più potere nelle sue mani
Nell'ottobre del 1312 venne imposto da Tolentino a Urbisaglia, Colmurano e
Montenereto di mandare cavalieri muniti armis et aliis ad exercitum opportunis
per una guerra contro Ancona; contemporaneamente si inviò come castellano
Aldrovannino di Gilberto Aldrovannini, a sostituire Jacobuzio Senebaldi, con il
famiglio Berto e otto sergenti per bene et sollecite de die et de nocte
custodire ita quod dictum castrum sanum et salvum permanebitur. Le magistrature
politiche, che amministravano Urbisaglia, erano composte del castellano o podestà,
eletto da Tolentino, con i suoi sergenti di polizia; mentre il sindaco e quattro
massari venivano eletti dagli uomini liberi di Urbisaglia.
Nel 1313 venne concessa per due anni la gabella della pesa di Urbisaglia al
convento di san Catervo di Tolentino per ripagarlo della somma dovuta dal comune
di Tolentino per l'acquisto effettuato di un molino lungo il Chienti. Nell'anno
successivo, Tolentino impugnò una sentenza giudiziaria davanti al giudice della
Marca per difendere il suo diritto di esercitare il mero et mixtum imperium
sopra il distretto di Urbisaglia. La questione era sorta poiché alcuni
cittadini di Urbisaglia erano stati incarcerati in Tolentino per reati comuni e
i parenti avevano presentato ricorso alla Curia provinciale contro la sentenza
di condanna emessa da giudice di Tolentino.
Lo stesso problema fu sollevato nel 1340, quando un omicida fu fatto evadere
dalla prigione con il favore del castellano di Urbisaglia. Allora il sindaco di
Tolentino si presentò davanti alla Curia provinciale per reclamare nello
specifico il suo diritto di poter giudicare il castellano infedele, e in
generale il diritto legale di Tolentino di poter esercitare la giustizia nel
castro a lei sottoposto.
Disordini nella Marca e ne
approfittano alcuni signori avventurieri
Nello sconvolgimento politico della Marca determinato dalle lotte tra i
fedeli al papa e coloro che volevano costituirsi in liberi signori con il
predominio ora di una fazione ora di un'altra, vennero posti sotto sequestro
alcuni possedimenti e proprietà di diversi cittadini condannati in contumacia e
banditi dai tribunali provinciali per la lega ribelle alla chiesa costituita da
Osimo, Recanati, Fabriano, Sanseverino, Matelica e Cingoli. Tra questi Guglielmo
di Albertina da Sanseverino aveva delle proprietà in Urbisaglia e nel suo
distretto; aveva subito la condanna a 100 lire nel mese di luglio per
l'occupazione armata di Montemilone per gli atti notarili di Tommasuccio da
Penna e Sante di Giovanni. Il Rettore della Marca donò i beni requisiti a
Federico di Montappone per i servigi resi al suo servizio nell'agosto 1315: è
lo stesso personaggio che aveva ereditato le proprietà di Clara di Rosso negli
anni precedenti; e che, nel 23 dicembre 1316, nominato come nobilis et potens
miles dominus Fredericus de Monte Appono vendette a Giovanni Gibellino Tubatori,
sindaco di Tolentino, la casa di Clara iuxta plateam comunis, viam publicam
Turribulum beccarium et Boctium Gualterii. Federico ne era entrato in possesso
di un terzo per gli atti del notaio Giovanni Bonaventura magistri Petri di Monte
Milone e per gli altri due terzi di proprietà da Vitale di Brost, arcidiacono
di Camerino e Rettore della Marca, per gli atti di Martino da Cesena.
Assalto di alcuni masnadieri
all'abbazia di Fiastra
Nel 1318 un certo frate Girardo da Petriolo, dopo essere stato scacciato
ignominiosamente dall'abbazia di Fiastra per il suo comportamento immorale, vi
ritornò con l'aiuto del fratello Nuzio Boncontis, di frate Raimondo e di un
manipolo di scherani radunati a Urbisaglia, Montemilone e Tolentino. Per
vendetta assalì l'abbazia, rubando calici, croci dorate, libri, paramenti
sacri, una borsa con 10 fiorini e 25 lire anconitane, cavalli e altri animali da
stalla e da cortile. Costoro bruciarono carte e atti notarili, sequestrarono e
bastonarono il priore che aveva espulso frate Girardo, portandolo in catene
attraverso i territori di Tolentino e Camerino, mentre si davano alla fuga. Il
tribunale del Rettore sospettò che dietro questo atto vandalico si
nascondessero le mire espansionistiche di Tolentino, vista la sua tenace volontà
di sottoporre l'abbazia alla propria giurisdizione. Vennero citati, allora,
Accorambono di Gentile da Tolentino, insieme agli altri notabili, il podestà e
le alte cariche cittadine, sottoponendoli ad un'istruttoria condotta dal
preposto di san Giacomo in Camerino, Pietro da Gubbio nominato da Americo de
Lautrico, vicario del rettore Amelio di Lautrec, preposto di Belmonte. Alla fine
del processo risultò, in mancanza di prove certe, la completa loro estraneità
ai fatti addebitati; solo i diretti responsabili furono condannati tutti in
contumacia, poiché nel frattempo si erano resi sagacemente irreperibili.
Accoramboni tiranneggiano
Tolentino
Nei primi anni del Trecento, nonostante l'esistenza delle autorità comunali, il
vero reggitore della Terra di Tolentino era Accorambono di Giovanni. Suo padre
era stato ucciso dagli avversari politici negli anni precedenti. Uguale sorte
subì Accorambono, che fu trucidato dai Tolentinati decisi a restaurare un
governo di populus contro i maggiorenti e i nobili. Nato nel 1275 circa era una
personalità di primo piano di parte guelfa, non solo in regione, ma anche a
livello nazionale se nel 1325 era stato eletto podestà a Firenze. Per quanto
riguarda Urbisaglia egli si era piano piano impadronito delle proprietà dei
Signori di Urbisaglia. Infatti nel 1328 acquistò due molini, diverse abitazioni
e numerosi appezzamenti di terra sparsi in tutte le contrade, che pagò solo nel
1330, da Cecca, moglie di Vanni Girardi da Massa, figlia di Lendesina e nipote
di Clara di Rosso, al prezzo di 360 fiorini aurei.
Nel 1335 si svolse al tribunale di Macerata una causa tra il monastero di Fonte
Avellana e un certo Pucciarello da Urbisaglia, riguardante il possesso della
chiesa di san Biagio e di un appezzamento di terra.
Fidesmido di Camerino
tiranneggia Urbisaglia
Inoltre, Gentile II, figlio di Berardo da Varano, signore di Camerino, chiese al
comune di Tolentino un risarcimento dei danni subiti nelle sue proprietà in
territorio di Urbisaglia durante la rivolta e la sedizione di Fidesmido da
Camerino, che con l'aiuto di alcuni suoi accoliti armati si era impossessato di
Urbisaglia e della rocca.
Un approfondimento va fatto su Fidesmido. E il nipote del Fidesmido di Pietro,
ultimo signore di Urbisaglia, e il figlio di Rodolfo di Giacobuccio, parente dei
Varano e fratello di Berardo, che ricoprì la carica di vescovo a Camerino dal
1310 al 1327. La parentela con Fidesmido il vecchio può essere stata originata
da un matrimonio contratto da una propria figlia, risultando nel testamento
erede come nipote. Per alcuni anni, inoltre, esercitò il potere sul paese,
dichiarando di possederlo in nome del Papa, dopo averlo occupato violentemente
provocando feriti e morti. Per legittimare questa usurpazione inviò perfino una
petizione al Papa, ad Avignone, tentando di ottenere la conferma ufficiale alle
sue pretese. Invece Giovanni XXII (1245-1334), per tutta risposta, il 24
novembre 1331 diede mandato al suo Legato nella Marca, Fulco, di intentare un
processo contro di lui per sedizione e rivolta nei confronti della Chiesa. Per
gli atti del giudice della curia generale, Buongiovanni di Piacenza, si procede
contro Fidesmido, i suoi familiares (Gentilone, Carilgionum, Cecco di Serravalle,
Jacobuzio di Spoleto, Cantuzio e Canonario), Massimo di Francesco di Matelica,
magistro Ruggero di Monte san Pietro e alcuni abitanti di Urbisaglia poiché si
erano impadroniti del castro e delle sue fortificazioni, uccidendo e ferendo
alcuni cittadini contrari, contro il volere di Tolentino e in aperta ribellione
della Chiesa. Anche il comune di Tolentino si era presentato per sostenere le
sue ragioni contro Fidesmido in persona del sindaco Vannuccio Gentiluzi,
accampando il diritto di giudizio per il mero et mixto imperio che esercitava
sul proprio distretto. Il Legato della Marca ammonì severamente Fidesmido e gli
concesse un termine perentorio per abbandonare il paese e restituire Urbisaglia
con tutte le sue fortificazioni a Tolentino, confermato nella pienezza dei suoi
diritti. La sentenza lo assolse dal reato di sedizione e occupazione armata di
una terra soggetta al dominio della Chiesa, mentre i ferimenti e gli omicidi
erano di esclusiva competenza del tribunale di Tolentino, al quale spettava il
diritto-dovere di perseguire questo tipo di reati. Di conseguenza nel 1335
Gentile da Varano, nominò Vanni Serri de Roccha Maii, come procuratore per
ottenere un risarcimento da Tolentino per 750 lire a causa dei danni provocati
nelle sue proprietà, durante la ribellione di Fidesmido. Intanto, Fidesmido,
vista la piega sfavorevole presa dagli eventi, aveva di certo già abbandonato
la partita e fatto perdere le sue tracce. Infatti, nel 1344 lo ritroviamo a
Siena con la carica di capitano di guerra: l'eletto a questa carica esercitava
il comando sull'esercito cittadino e svolgeva, anche funzioni repressive e
giudicanti su questioni di ordine pubblico. E da questa sede che, attorniato dai
suoi ufficiali pro suo officio exercendo nominò don Francesco Rinaldi di
Urbisaglia e Ruggero magistri Deutallevi olim de Monte Sancti Petri et nunc
habitator castri Urbisalie come suoi procuratori per nominare don Sciarra
magistri Pertempi di Sarnano come cappellano della chiesa di san Giorgio di
Urbisaglia, sottoposta la suo juspatronato.
Precedentemente, nel 1340, la stessa carica era stata ricoperta dal padre
Ridolfo di Camerino, che si era distinto nella repressione di una congiura
scoppiata a Massa contro Siena, dove fece decapitare i caporioni della rivolta.
Ma Fidesmido nell'esercizio delle sue particolari funzioni, strinse alleanze
troppo strette con la fazione dei popolari, destando i sospetti del consiglio
dei nove, composto per lo più di nobili. Per evitare sgradite sorprese, il
consiglio lo destituì dalle sue funzioni dopo solo due mesi, pur saldandogli il
salario per l'intero anno.
Successivamente, ormai anziano e stanco, lo ritroviamo a sottoscrivere patti di
pace con Rodolfo da Varano alla presenza del Legato della Marca Gil Alvarez
Carrillo de Albornoz (1310-1367), detto semplicemente Egidio Albornoz, nel 1363,
con la ricomposizione delle offese, che si erano reciprocamente arrecati (homicidia,
injurias et molestationes); che i seguaci di Fidesmido possano liberamente
girare armati per la provincia senza essere molestati dai seguaci del Varano;
che il castro, controllato da Rodolfo, ritorni sotto il controllo di Fidesmido,
ma il Legato sostenne l'impossibilità della cosa, poiché apparteneva a
Tolentino e Rodolfo lo governava per subvicariato concessogli a vita dal Papa.
Infatti, sin dal 1355 a Rodolfo di Varano era stato concesso in feudo Tolentino,
insieme con Sanginesio.
Da questo momento in poi la casata di Fidesmido, denominata successivamente dei
Ridolfini, procurò un grande lustro alla città di Camerino con i suoi
discendenti, uno dei quali divenne addirittura comandante generale della
cristianità nella guerra santa contro i Turchi in Ungheria.
L'Arbornoz e le Marche
Negli ultimi mesi del 1347 comparve in tutta Europa la peste nera, così
chiamata per via delle emorragie sottocutanee che deturpavano i cadaveri.
L'imperversare del flagello variò da regione a regione, a volte anche da
villaggio a villaggio. Comunque, si presume che a livello europeo il numero
degli abitanti riducesse di circa un quarto.
Nello Stato della Chiesa l'autonomia dal papa dei signori e dei comuni più
grandi era un fatto compiuto; allora, nel 1353, Innocenzo VI (inviò come Legato
il cardinale aragonese Egidio Albornoz, a recuperare e riordinare in forma
statuale il patrimonio di san Pietro. Contraddistinsero la costruzione politica
dell'Albornoz un accentuato carattere personale e una concezione dell'autorità
papale non tanto in termini di dominio, quanto di pacificazione e coordinamento
di territori frammentati fra una pluralità di realtà comunali e signorili
estranee e contrapposte l'una all'altra. Attese a quest'impresa per quindici
anni, contrastando o alleandosi con le diverse signorie come Gentile da Mogliano
a Fermo, i Manfredi di Faenza, gli Ordelaffi di Forlì, Galeotto e Malatesta
Malatesta ad Ancona e Recanati. Con il Liber Costitutiones Marchiae anconitanae,
da lui emanate a Fano tra il 20 e il 30 aprile del 1357, raccolse, ordinò e
ammodernò le leggi e le consuetudini delle Marche, allo scopo di restituire
alla regione una base stabile del diritto; e rimasero a fondamento della
struttura dello stato della Chiesa fino al 1816, alla fine dell'età
napoleonica. Le costitutiones Aegidianae furono un programma di legislazione
regionale, virtualmente estesa a tutto il territorio pontificio, ma rispondente
essenzialmente a un certo orientamento della sola Marca anconetana, dove vigeva
un equilibrato sistema di modesti poteri di città autonome in un regime tra
comunale e signorile, e marginali dinastie territoriali.
Urbisaglia ritorna sotto il
controllo di Tolentino
Tolentino ritornò presto in possesso di Urbisaglia, infatti il primo luglio del
1365 il suo sindaco pronunciò il giuramento di fedeltà alla Chiesa anche a
nome dell'intero distretto. Gli abitanti di Urbisaglia, con la scomparsa dei
propri Signori diventarono protagonisti della propria storia e pur avendo dovuto
rinunciare forzatamente alla propria indipendenza per decisioni altrui, non
cessarono mai di difendere la propria libertà, conservando e ampliando
continuamente i margini della propria autonomia nell'amministrazione del proprio
territorio e della loro vita sociale.
Del 1367 ritroviamo documentato l'ultimo atto notarile degli eredi di Fidesmido.
Il 15 aprile, dopo la morte del cappellano di san Giorgio di Urbisaglia, don
Angelo Rinalduzi di Borgiano, viene nominato dagli eredi di Fidesmido don
Francesco di Andrea da Serravalle, pievano di san Lorenzo, a nominare come nuovo
rettore della chiesa di san Giorgio don Antonio Vanni: Todisca, figlia di Masio
Gentiluzi da Mogliano e moglie del quondam Giorgio, figlio di Fidesmido, e
tutrice dei figli Toardo e Matteo. L'atto viene stipulato nella chiesa di san
Lorenzo e il pievano impone le mani al nuovo rettore, confermandolo
nell'incarico ricevuto.
Nel gennaio del 1372, Gregorio XI ritornò da Avignone a Roma e il 26 dello
stesso mese, con un Breve, concesse i feudi di Tolentino e Sanginesio a Gentile
III e Giovanni, fratelli di Rodolfo di Varano, a cui furono tolti, poiché erano
sostenitori più sicuri della politica papale.
Tra peste e signori della
guerra
Insieme alla peste, che si abbatté più volte durante questo secolo,
cominciarono ad imperversare le compagnie di ventura, che, mettendosi al
servizio di questo o quel comune, finivano per taglieggiare duramente tutta la
popolazione. L'abbazia di Fiastra, saccheggiata nel 1381 dalla compagnia detta
Società di san Giorgio al comando del conte Lando (Konrad von Landau) e
dell'Acuto (John Hawkwood, 1320 c.a - 1394), si avviò verso una progressiva
decadenza. Di conseguenza Urbano VI (1318-1389) sollecitò il Legato della Marca
ad applicare le sanzioni contro gli usurpatori Gentile e Rodolfo da Varano che
tra i vari castelli detenevano illegalmente anche quello di Urbisaglia. Ma
vennero completamente assolti dall'accusa di ribellione alla Chiesa dal papa
Bonifacio IX (Pietro Tomacelli, 1350 c.a -1404), famoso per il suo nepotismo,
che lo indusse fra i vari favoritismi ad affidare ai parenti laici alti
incarichi amministrativi.
L'11 settembre del 1393, il fratello del papa Bonifacio IX, Andrea Tomacelli
venne mandato con un esercito agguerrito a riprendere il possesso della Marca e
toglierla al controllo dei Varano. Riuscì ad entrare in Penna san Giovanni,
difeso dalle genti di Gentile di Varano, ma con i rinforzi sopraggiunti da
camerino Gentile riuscì a sconfiggere il marche Tomacelli e a farlo prigioniero
insieme al conte Francesco di Carrara.
Nell'ottobre del 1399, Rossino Mustaroli, sindaco di Urbisaglia con atto
notarile di Mario Antonio di Vanni e di Gentiluccio Catti, giura fedeltà al
podestà di Tolentino Nicola di Giovanni de Fracta da Trevi, accompagnato da
Giovanni Francesco, Giovanni di Vanni Andreoli, Marchese Nicoluzi e Giorgio di
Tommaso.
Sul finire del secolo l'abate e monaci dell'abbazia di Fiastra si trasferirono
ad Urbisaglia poiché, a causa delle incursioni e delle razzie perseguite da
bande mercenarie, non era loro più garantita l'incolumità fisica tra le mura
del monastero. Intanto le gabelle di Urbisaglia erano gestite in appalto da
Tolentino, mentre la nostra comunità pagava un censo mensile per l'affitto di 4
fiorini, che Tolentino trasmetteva successivamente alla curia romana, mentre la
riscossione della dativa venne affidata a Gentiluccio Cecchi di Urbisaglia, e
nel 1401 a Giulio Cecchi beccaio di Tolentino per una raccolta complessiva di 43
fiorini.
Nel 1407 venne inviato come castellano ad Urbisaglia Benedetto di Cola. Il 16
marzo del 1409 Urbisaglia acquistò da Giovanni di Rodolfo da Varano alcuni
campi in Brancorsina collocati tra l'abbadia di Fiastra e il Chienti per gli
atti di Paolo Petrutii di Camerino. Successivamente la comunità completò
l'acquisto della possessione di Brancorsina o Coste di Chienti con
l'acquisizione delle proprietà dei signori Vanni di Camerino: era una proprietà
boschiva utilizzata dagli abitanti come comunanza per raccogliervi legna e
fascine o pascolarvi i maiali.
Nel Quattrocento si formò sovente una diarchia tra il governo del rettore
papale e le magistrature locali, rendendo più evidente la persistente
eterogeneità delle autonomie operanti con un'accentuata instabilità interna e
spesso anche territoriale. Ovunque le oligarchie, affermatesi nel periodo
precedente, rimasero socialmente e politicamente vitali, ora in connubio, non
senza talvolta tensioni, con i regimi signorili cittadini, coperti n no dal
vicariato, ora invece in rapporto diretto con la sede pontificia.
Nel 1421 Braccio da Montone (1368-1424), signore di Perugia e sposo di Nicolina
da Varano, marciando contro la città di Fermo, nel tentativo di impadronirsi
della Marca, trovò la strada sbarrata dall'abate di Fiastra Antonio da Varano,
alleato con i suoi nemici. Cinse d'assedio il castello della Rancia, invase e si
impadronì dell'abbazia, devastandola ferocemente nei suoi possedimenti: fece
crollare il tiburio e il tetto della chiesa, e rase al suolo il castello di
Villamagna. L'abate si ritirò definitivamente in una casa che l'abbazia
possedeva in Urbisaglia, nella quale stipulò diversi atti di enfiteusi per
continuare ad amministrare le numerose proprietà terriere. L'abbazia non si
riprese più da questa selvaggia distruzione e lentamente si avviò verso una
progressivo decadimento.
Urbisaglia e Tolentino dopo
il '400
I rapporti con Tolentino continuavano ad essere assai precari: nel 1428 Niccolò
Bianchini, luogotenente di Giovanni II da Varano, venne chiamato a dirimere una
diatriba tra Tolentino da un lato e le comunità di Urbisaglia e Colmurano
dall'altro. Questi due comunità si erano rifiutate di pagare le tasse a causa
delle continue vessazioni subite. Il duca di Varano, intervenendo nella
controversia, obbligò i due comuni a pagare in futuro le tasse concedendo,
inoltre, che la somma arretrata venisse utilizzata per la manutenzione
straordinaria delle mura castellane, e nel contempo intimò a Tolentino di
inviare un medico e un maestro di scuola a servizio dei due distretti.
Urbisaglia godeva di una discreta autonomia, tanto che il 16 marzo del 1429 con
un atto stipulato a Camerino, nella casa del magistro Giovanni sita sopra la
camminata del magnifico Berardo II da Varano in contrada di Mezzo, alla presenza
dei testimoni Conte di san Venanzo, Nicola dei Blanchini da Bologna, ser Marino
Angeli da Sarnano, Giluzio di Jacobo dei Giluzi di Tolentino e del canonico
Giovanni de Oculis di Camerino, acquistò da Giovanni II da Varano
nell'interesse della comunità, attraverso i suoi sindaci Francesco di Nicola e
Mariotto di Marino, nominati con atto del notaio Tommaso di ser Giulio di
Sanginesio, ma abitante in Urbisaglia, tutte le proprietà appartenute per tre
quarti agli eredi di Fidesmido di Camerino e per un quarto a Febo di Rodolfo,
con l'esclusione di molendinis, frisculis, domibus et omnibus aliis quibuscumque
consistentibus rebus intus castrum predictum Urbisalie, il cluso che tiene
Matteo Sclavi, la terra lavorata da Cola Moriduttis, l'orto che avevano venduto
a Piergentile Varano Orlandino Ceci e Pedicone, le terre acquistate da Orlandino
Petullio e la vigna di Coptimatis Giliuzio, per un prezzo complessivo di 1100
ducati d'oro, di cui 400 pagati subito e il resto entro un anno. Inoltre nel
1432, il patrono di Tolentino Giovanni di Rodolfo da Varano, stabilì nuove
regole riguardanti il castellano di Urbisaglia confermando che doveva giurare
fedeltà nella persona del sindaco di Tolentino.
Organizzazione civile della
Marca e il Papato
In questo secolo, la grande politica papale verso lo stato fu abbastanza
costante e coerente. Le considerazioni fondamentali erano la creazione di
sicurezza per la sede del papato in Roma; per dare una protezione alle politiche
spirituali, ecclesiastiche e temporali dagli influssi minacciosi provenienti da
governi estranei in Italia e fuori; la creazione e il consolidamento del
territorio per proteggere la Città Eterna e la chiesa centrale; fornire i
soldati per la difesa, denari per pagare i soldati e sostenere le politiche
globali del Papato. A Tolentino la locale oligarchia si presentava ancora
largamente informale: la compilazione statutaria del 1434 disponeva una
rappresentanza popolare in consiglio distribuita per quartieri e non ereditaria,
mentre un addictio di poco successiva (agosto 1436), richiede nei confronti
degli aspiranti alle cariche pubbliche libram appretii et fumantem e l'essere
originario del luogo. Solo nel secolo successivo questa diventerà ereditaria;
sempre che il successore non sia persona infame.
Francesco Sforza nella Marca
La situazione della Marca era destinata ad evolversi in modo caotico ed in
continue innovazioni, incoraggiando le mire espansionistiche degli audaci
condottieri di ventura. Ma venti di guerra si aggiravano nella Marca e Tolentino
obbligò, nel novembre 1432, i futuri nuovi castellani di Urbisaglia a portare
seco omnia et singula utensilia et arma opportuna in dicto castro, a loro spese.
Francesco Sforza (1401-1466), visconte di Cotignola e conte di Ariano nonché
famoso capitano di ventura, era giunto nella Marca con lo scopo di crearsi un
dominio personale. Entrato nella Marca dalla Romagna, in breve sottomise tutte
le città assediando i più riottosi, mentre il legato pontificio Giovanni
Vitelleschi fuggiva ignominiosamente con una nave da Recanati verso Venezia, per
riparare poi a Roma.
Patrone assoluto della regione, Francesco Sforza affidò Urbisaglia al suo
capitano Taliano il Furlano, che l'aveva conquistata provenendo da Sanginesio,
insieme al fratello Bartoluccio, con un audace colpo di mano dopo la sconfitta
subita a Fiordimonte dal capitano del papa Niccolò Fortebraccio, che vi perse
la vita per mano di Cristoforo Mauruzi da Tolentino.
Signoria di Taliano il
Furlano su Urbisaglia
Per l'assenza di Taliano, impegnato nelle varie scorribande contro i sostenitori
della Chiesa e per conservare le usurpazioni effettuate dallo Sforza, il potere
amministrativo e giuridico venne esercitato da Bartolomeo Nicolai di Montolmo
con la carica di podestà, ma la rappresentanza diplomatica fu esercitata dalla
moglie di Taliano, Elena Tomacelli. Infatti, dalla sua dimora in Urbisaglia, con
due lettere datate 7 e 14 settembre 1436, si rivolse al consiglio di Credenza di
Macerata per ottenere la liberazione di Domenico da Francavilla, amico di
Taliano e famiglio di Troilo de Murro da Rossano, un altro valoroso capitano
premiato dallo Sforza con il feudo di Apiro, coinvolto in un omicidio perpetrato
in Petriolo. E dopo essere stata accolta la sua richiesta, ringrazio quel comune
con una lettera datata il 18 settembre dello stesso anno. Mentre esiste
all'archivio statale di Macerata un libro sulla amministrazione del comune da
parte del podestà Bartolomeo Niccolai. Contiene diverse ordinanze sul divieto
di lavare panni nelle fonti Pecolle e Nuova, situata nella piazza, di non
bestemmiare la Vergine e i Santi, di non ospitare i banniti dal dominus Taliano,
sulla proibizione del gioco dei dadi o altri divertimenti, di non attentare al
tranquillo stato della Terra garantito dal magnificum dominum Talliano, e di
organizzare feste senza il suo permesso sotto la pena prevista negli statuti e
nelle riformanze. Successivamente risulta un altro podestà di nome Ugolino.
Vita di Taliano Furlano
Taliano (o Italiano) merita un accenno particolare per essere stato dominus di
Urbisaglia: figlio di Antonio, era originario del Friuli, per questo viene detto
il Furlano (friulano). Si era sposato nel 1428 a Foligno, mentre era al servizio
della repubblica fiorentina con Elena come capitano delle armi, figlia di Agnese
dei Trinci, signori del luogo, e di Andrea de Tomacellis, nobile originario di
Napoli e parente del papa Bonifacio IX.
Aveva servito nel 1432 Venezia e nell'anno successivo era passato, con armi e
bagagli, al servizio di Francesco Sforza, seguendolo nella sua avventura nella
Marca. Dopo alcune fulminee operazioni militari compiute nella Marca, compresa
la conquista di Urbisaglia, Taliano si rivelò un brillante combattente e
stratega tanto da divenire uno dei principali capitani dello Sforza. La smania
di denaro dei capitani di ventura era cosa nota e le varie città se li
contendevano rialzando il prezzo della condotta che il precedente committente
aveva sborsato. Così anche lui, nel 1436, attirò l'interesse di Camerino, che
si manteneva apparentemente indipendente sotto i Varano, per un passaggio nelle
sue fila; ma Taliano, in quella occasione, rimase fedele allo Sforza. Dopo aver
fatto campo militare nell'agosto del 1437, insieme a Alessandro Sforza, in
Fabriano per contrastare i continui movimenti di truppa del Piccinino,
proveniente dall'Umbria, scoppiarono scaramucce con Camerino, che aveva già
riconquistato Serravalle. Nel novembre, Camerino si alleò con Francesco
Piccinino e Giosia Acquaviva, che operavano per conto del Papa, nel cercare di
scacciare il conte Sforza dalla Marca, Ma Francesco Sforza, non si fece
intimidire, coadiuvato da Taliano e dagli altri suoi capitani, attaccò Camerino
assediandola e saccheggiando i paesi limitrofi: Castelraimondo, Muccia e
Serravalle. La pace venne ben presto stipulata con le armi in pugno e la città
stremata dovette rinunciare ai diritti su quelle terre pagando, inoltre, una
grossa somma di denaro per risarcire le indennità di guerra. Ma questi patti
venivano rispettati per il tempo che duravano i soldi dalla taglia, così, il 23
dicembre, ritroviamo Taliano, accampato presso san Maroto, nel tentativo di
impadronirsi della città. Da qui inviò diverse lettere alle comunità della
provincia per ottenere aiuti, in vista del protrarsi del lungo assedio. Inoltre
emise anche un bando, in nome dello Sforza, per invitare i vescovi, gli abbati,
i comuni e gli ebrei a pagare le tasse, i frutti dei censi e qualsiasi altra
imposta dovuta alla tesoreria del conte. Seguirono numerosi e violenti
combattimenti, compreso l'assedio di Fiordimonte, che lasciarono nel camerinese
un pessimo ricordo di Taliano. Ma sul suo conto cominciarono a circolare, sempre
più spesso, convincenti voci di un probabile tradimento, come risulta da una
lettera inviata al duca di Milano Filippo Maria Visconti (1392-1447) da un suo
famiglio il 15 novembre: trovò Taliano cum VII cavali de là da Pesaro chi
andava in la Marchia, li altri soi cavalli li andava dietro scortegati et
desfacti. Dice se presume de là che Taliano ingannerà il Conte Francesco.
Infatti nel gennaio 1438, convinto da Niccolò Piccinino (1386-1444), passò con
armi e bagagli alla parte avversa, dopo che gli era pervenuta fortuitamente
nelle mani una lettera dello Sforza, indirizzata al fratello Alessandro, nella
quale si ordinava l'arresto immediato di Taliano per alto tradimento.
Abbandonato l'assedio di Cessapalombo e accettata una condotta da Camerino per
2.000 scudi, ritornò al suo dominio di Urbisaglia tentando anche, con una
sortita improvvisa, di impadronirsi di Macerata, e mettendo in apprensione i
comuni della Marca, che ben conoscevano la sua valentia e audacia. Ma Alessandro
Sforza, accorso in tutta fretta da Fermo dove risiedeva, per recarsi a
Sanseverino, qui chiese a tutti i comuni di inviare nuovi soldati
nell'accampamento programmato nei pressi di Montolmo. L'inizio della lettera
riferisce: Siccome per l'innovazione di offendere ha fatto Urbisaglia, è di
bisogno far provvigione a Montolmo, dove manderemo delle genti d'arme, anche per
la conservazione di quella Terra e la salute dei vicini circostanti, dai quali
nei bisogni si deve ricercare i favori e aiuti. L'ordinanza non ebbe
conseguenze, poiché Taliano, dopo aver tentato un'altra sortita alla volta di
Ascoli, passò ai primi di aprile con i suoi soldati al servizio di Norcia e di
Corrado Trinci, zio di sua moglie e signore di Foligno, quando venne stipulata
la pace tra Francesco Sforza e il Visconti.
Al loro servizio partecipò con la sua banda armata alla guerra contro Spoleto,
nella quale Piero Tomacelli abate di Montecassino, loro parente, svolgeva
funzioni di governatore. A lui si erano ribellati gli abitanti per le continue
angherie subite e perché Corrado Trinci desiderava mettere la città sotto la
sua giurisdizione. Dopo qualche mese, il 6 maggio, Spoleto fu presa e messa al
sacco. Taliano non si trattenne a lungo in Umbria poiché Corrado Trinci venne
catturato durante il sacco di Foligno, l'8 agosto 1439, dal cardinale Giovanni
Vitelleschi e incarcerato nella rocca di Soriano, dove successivamente venne
strangolato per ordine dello stesso Eugenio IV, insieme ai suoi figli Francesco
e Giacomo, il 14 giugno 1441. Taliano era già stato richiamato nel maggio 1438
al servizio dal duca di Milano, di nuovo avverso allo Sforza.
Nella Marca giunse la notizia che, in uno scontro violento sul lago di Garda, è
stato rotto Taliano Furlano e ferito a morte da uno schioppetto, e le sue
bandiere sono condotte a Vinegia in suo grandissimo vilipendio. La notizia era
certamente falsa, se Taliano, in veste di capitano del Visconti, alleato del
Papa e del re Alfonso di Napoli guerreggiava con ragguardevoli truppe contro la
città di Bologna nel luglio del 1445, mentre nei mesi seguenti era intento ad
occupare le città tra il Metauro e il Foglia per conto della Lega Santa,
costituitasi contro lo Sforza al comando del cardinale Ludovico Scarampi
Mezzarota patriarca di Aquileia. Il 5 ottobre conquistò Montesanto (Potenza
Picena) e dintorni, ponendo in stato di assedio Civitanova. Ma il sopraggiungere
delle armate sforzesche lo costrinse ad una frettolosa ritirata.
Dopo la perdita di Roccacontrada, la stella dello Sforza stava tramontando e
tutte le città lo abbandonarono. A Taliano si era aperto il cammino verso
Fabriano e diede il suo contributo nella riconquista papale, mettendo a ferro e
fuoco Cingoli e il circondario, mentre gli altri capitani, Giovanni Ventimiglia
e il patriarca di Aquileia, provenienti dagli Abruzzi e transitando per Norcia e
Fabriano lo raggiunsero, riunendo i tre eserciti. Conquistarono Montemilone, che
si arrese subito; il 9 novembre entrarono trionfalmente a Macerata, dove
accettarono la resa incondizionata di Civitanova, Recanati e delle città
rimaste fedeli allo Sforza. Solo Fermo oppose una strenua resistenza e fu
ordinato a Taliano di metterla in stato di assedio nel gennaio del 1446.
Immediatamente, il Ventimiglia e Taliano mossero le truppe verso Fermo e
giunsero a Santangelo in Pontano, dove trovarono le porte sbarrate. La
inaspettata resistenza cagionò la rabbia dei due capitani, che postala in stato
di assedio, l'ebbero in breve in loro potere e la misero a ferro e fuoco. Alla
notizia di questi eventi, gli abitanti di Mogliano si affrettarono a
sottomettersi, ai 14 novembre. Con la situazione pacificata nei dintorni, il 26
novembre l'esercito papale raggiunse Fermo, dove il 24 era scoppiata una rivolta
dei cittadini, che aveva costretto Alessandro Sforza ad asserragliarsi con le
truppe fedeli all'interno della fortezza, detta Girifalco. Dopo un lungo e
inutile assedio per la strenua difesa apprestata dagli sforzeschi, Fermo
raggiunse un accordo con Alessandro Sforza e in cambio della sua partenza,
avvenuta il 20 febbraio 1446, alla volta di Camerino, dove continuavano a
governare i Varano parenti stretti di sua moglie Costanza, ricevette alcuni
ostaggi fermani e 10.000 fiorini come contribuzione della guerra in atto.
Il 2 maggio ritroviamo Taliano Furlano all'abbazia di Fiastra per ricevere i
numerosi doni e omaggi, che solennemente Tolentino aveva decretato al gradito
ospite. Quindi i tre eserciti papali, del Patriarca di Aquileia, di Raimondo
Boilo e del Furlano si riunirono tra Fossombrone e Fano, per riconquistare
quella parte della regione al dominio della Chiesa. Così, mentre l'avventura
nella Marca di Francesco Sforza procedeva verso le sue definitive conclusioni,
Taliano, adescato dai Fiorentini, decise di cambiare di nuovo bandiera. Ma il
Visconti, venuto a conoscenza della tresca attraverso le sue spie, spedì negli
accampamenti del cardinale il fedele Giorgio Danone con una missiva segreta.
Scoperto il tradimento, il cardinale fece catturare Taliano, il 28 luglio 1446.
Fu condotto così sotto buona scorta a Rocca contrada, dove il castellano lo
fece decapitare nella pubblica piazza di fronte ad una popolazione eccitata.
Così si conclusero insieme le avventure e la vita di un coraggioso capitano di
ventura, che ha vincolato il suo nome alla storia di Urbisaglia. Egli resta
comunque il simbolo emblematico e lo specchio fedele dei travagli in cui si
dibatteva l'intera Italia in questo secolo così violento.
Urbisaglia sotto Francesco
Sforza
Riprendendo il filo rosso della storia di Urbisaglia troviamo che,
posteriormente al tradimento di Taliano, Francesco Sforza mise Urbisaglia sotto
il controllo del suo capitano Antonio degli Attendoli da San Severino, detto il
Ciarpellone o Zerpellone. Egli si era distinto spesso al servizio dello Sforza,
restandogli fedele nella buona e cattiva sorte, per audacia e ferocia nei vari
scontri armati, tanto che venne definito dall'umanista rinascimentale Francesco
Filelfo (1398-1481): vir industrius, audax, ferus bellicosissimusque.
Ciarpellone la governò per un anno circa attraverso Bartolomeo de Humilis di
Perugia, ma sospettato anche lui di tradimento venne impiccato ingloriosamente a
Fermo, cosicché Urbisaglia passò alle dirette dipendenze dello stesso Sforza.
Il 19 agosto del 1443, infatti, Francesco Sforza partito di mattina presto da
Urbisaglia dove aveva pernottato e accampato le sue truppe, dette battaglia
nella pianura di Montolmo all'esercito di Nicolò Piccinino, posto al comando
del figlio Francesco Piccinino, di Carlo Fortebraccio e del cardinale Capranica,
sconfiggendoli.
Partenza di Francesco Sforza
dalla Marca e ritorno dello Stato della Chiesa
Comunque la stella del conte Francesco nella Marca stava tramontando nella
Marca, dove stava infuriando la peste, mentre cominciava la radiosa avventura
nel ducato di Milano.
Nella Marca, allontanatosi Francesco Sforza, scomparirono definitivamente anche
le vecchie signorie dei Chiavelli a Fabriano, degli Smeducci a Sanseverino e dei
Cima a Cingoli. Ad Ascoli, a Fermo e a Jesi non si parlò più di vicariato,
mentre tornarono i Varano a Camerino rassegnati a un ruolo ormai marginale.
Mentre gli Ottoni restarono a Matelica, ove lo Sforza li aveva mantenuti. Il
tracollo delle Signorie restituì al pontefice gran parte del controllo diretto
della Marce. Se si escludono le zone infeudatate in aree economicamente e
politicamente marginali, nel resto del territorio si stabilì un rapporto
diretto, se non tra sovrano e sudditi, certamente tra pontefice e comunità
immediate subiectae. La formula del reggimento di queste comunità venne dunque
ad assumere, nell'ottica del governo centrale, un rilievo politico e una valenza
strategica nuova ed imponente. Ci troviamo in presenza di un potere oligarchico,
che precede l'esperienza signorile, che convive con essa, ed a essa sopravvive
dimostrando sul lungo periodo una intensa capacità di tenuta, di recupero e di
ripresa. E tutto ciò anche nella misura in cui, nell'adottare modelli di
reggimento del potere con norme magnatizie o antimagnatizie, popolari o miste,
riesce a piegarle agli interessi precipui del proprio aggregato sociale, con un
netto convergere di intenti fra la nobiltà antica e nuova, con la fusione in un
solo ceto sociale egemone della nobiltà imborghesita e della borghesia
feudalizzata
L'Europa alla fine del Medioevo
Tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento il movimento
espansivo che aveva caratterizzato l'Occidente nel corso dei precedenti tre
secoli si arresta e la società mostra, a vari livelli, preoccupanti segni di
crisi.
Episodi magari delimitati, ma di grande valore simbolico, colpiscono i
contemporanei e forniscono agli storici di oggi indizi importanti. Fra questi vi
è senz'altro il moltiplicarsi di scioperi, sommosse urbane, rivolte che
incendiano soprattutto le Fiandre e la Francia fra il 1280 e il 1306;
l'interruzione dei lavori nei cantieri delle cattedrali (a Beauvais, le cui
volte crollano rovinosamente nel 1284, Narbona, Colonia e più tardi Siena); i
fallimenti a catena delle grandi compagnie mercantili-bancarie fiorentine fra il
1343 e il 1346. In realtà a mostrare sicuri sintomi di difficoltà è
innanzitutto il settore che, verso il Mille, aveva messo in moto lo sviluppo:
quello agrario. Condizionata dai mutamenti del clima, divenuto più freddo ed
umido, indebolita da una colonizzazione talvolta indiscriminata, sottoposta alla
pressione di una popolazione a lungo in crescita, l'agricoltura non appare più
in grado di assicurare livelli ottimali di prodotto. Il primo risultato di tale
squilibrio è la frequente ricomparsa delle carestie, tra cui spicca, per la sua
intensità ed ampiezza, quella del 1315-1317. Ma a questa recrudescenza della
fame, che interessa in misura diversa l'intero Continente, si correla anche un
pericoloso regresso nelle condizioni di vita degli uomini e un graduale venir
meno delle capacità di resistenza del loro organismo dinanzi alle malattie. Per
averne la prova non c'è bisogno di attendere molto. Nel 1347-48 la peste,
nella contagiosissima forma polmonare, si abbatte sull'Europa, decimando forse
un terzo della sua popolazione e provocando contraccolpi economici, sociali e
psicologici di enorme portata. Una volta passata la fase acuta, inoltre, il
flagello rimane in Occidente allo stato endemico, con frequenti ricomparse. Come
se tutto ciò non bastasse, la guerra, con il suo corteo di morte, distruzione e
miseria, costituisce la compagnia quotidiana di generazioni di europei: le
guerre di Scozia e di Castiglia, quelle fra le città italiane, quelle sul
Baltico con la Hansa, ma soprattutto il conflitto che dal 1337 al 1453 oppone la
Francia all'Inghilterra contribuendo decisamente, nel bene e nel male, a
plasmarne la storia successiva. Le molteplici tensioni cui è sottoposta la
società europea alimentano nuove esplosioni di malcontento sociale. Nel 1358
una violenta sollevazione antinobiliare - la jacquerie - insanguina le
campagne della Francia già prostrata da vent'anni di guerra saldandosi
temporaneamente con le rivendicazioni della borghesia urbana contro la politica
fiscale della monarchia; nel 1378 il Tumulto dei Ciompi, insurrezione
degli operai dell'industria tessile cittadina in lotta per ottenere migliori
condizioni di vita e una rappresentanza politica dei loro interessi, paralizza
Firenze; nel 1381 i contadini e i tessitori dell'Essex e del Kent, suggestionati
anche dalla voce di predicatori itineranti, si armano contro l'aumento delle
tasse e le misure di contenimento dei salari varate dalla Corona inglese. E si
tratta soltanto degli episodi maggiori. Se guardiamo agli Stati e ai
tradizionali poli di potere potremo cogliere trasformazioni profonde. Le autorità
"universali" del Medioevo brillano di luce più fioca. Il Papato
appare indebolito dal lungo trasferimento ad Avignone (1309-1377), dalle
divisioni del Grande Scisma (1378-1417), dal risorgere di movimenti ereticali
come quelli fondati da John Wycliffe in Inghilterra e da Jan Hus
in Boemia. L'impero è ormai ridotto unicamente a monarchia tedesca e
l'imperatore deve il proprio prestigio più alla consistenza dei suoi dominii
ereditari che al titolo di monarca "universale"; il baricentro
del regno, inoltre, si va spostando dal cuore della Germania all'Austria, dove
cresce la potenza degli Asburgo. A ovest i protagonisti principali della nuova
Europa sono ora la Francia, dove la dura esperienza della guerra ha rafforzato
il sentimento nazionale accelerando il processo di formazione di uno stato
centralizzato, e in prospettiva l'Inghilterra, che dopo un trentennio di guerra
civile (guerra delle Due Rose, tra York e Lancaster, per la successione dei
Plantageneti) scatenata dalle divisioni interne all'aristocrazia, si avvia dal
1485 ad una piena restaurazione dell'autorità del re sotto la dinastia dei
Tudor. A est la spinta all'aggregazione si manifesta soprattutto nella
costituzione, fra Tre e Quattrocento, di un grande regno polacco-lituano e nella
crescita del principato di Mosca, che dopo essersi imposto sugli altri
principati russi, dal 1480 si libera completamente dalla tutela del Canato
dell'Orda d'Oro. A sud, nella Penisola iberica, dall'epica stagione della
reconquista emergono i regni del Portogallo, di Castiglia e di Aragona, gli
ultimi due destinati a realizzare una unità sempre più stretta, basata sullo
sviluppo di una coscienza nazionale "spagnola". Con il ristabilimento
della pace e l'emergere di governi più stabili anche la congiuntura economica
torna favorevole, mentre la popolazione riprende lentamente a crescere. Alla
fine del Medioevo l'Europa degli uomini d'affari e degli Stati è pronta per la
sua avventura più grande: la scoperta del Nuovo Mondo.